Arte
Caravaggio Remixed/ ep.3 Tirato sotto la gonna di una marchesa
Nel 2005 la Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi pubblica una raccolta di documenti, in grandissima parte inediti, messi assieme da Giacomo Berra. È Mina Gregori a curare la presentazione del volume. La studiosa, che già figurava nella segreteria della prima mostra sul Caravaggio, quella del 1951 a Milano curata appunto da Roberto Longhi, e che dello stesso Longhi fu indubbiamente l’allieva più sensibile e attenta ai temi caravaggeschi, scrive così: «Partendo dai marchesi di Caravaggio, il Berra ha potuto confermare gli stretti, intrinseci rapporti della famiglia con i due Borromeo, Carlo e Federico, che contribuirono senza ombra di dubbio a creare il clima nel quale si formò il Caravaggio. E ha intessuto la rete di parentele che legava gli Sforza Colonna con altri casati italiani e che è la chiave per spiegare la protezione offerta al pittore nei momenti di emergenza». E ancora: « Queste notizie fanno capire quali stretti legami vi furono tra gli Sforza Colonna e il pittore, che, dunque, con loro si conferma esser stato sempre “di casa” e che, come suddito, secondo un giuramento fatto, godeva secondo il Berra di una “dovuta protezione” di tipo feudale».
Nel libro di Berra ricorrono tutti gli episodi, dall’arrivo a Roma alla fuga a Genova, dal soggiorno nel feudo Colonna di Paliano alle due fasi napoletane e al viaggio a Malta, in cui la protezione degli Sforza Colonna, e in particolare della contessa Costanza, sarebbe stata decisiva nell’orientare il comportamento del pittore. Come scritto esplicitamente dall’autore all’inizio del capitolo suddetto: «I momenti nei quali la protezione della famiglia Sforza Colonna è risultata più evidente sono già stati individuati dal Calvesi»: Il riferimento è soprattutto al testo La realtà del Caravaggio, del 1985, ma anche ad altri scritti, in cui si rimarca con forza questo legame del pittore con i marchesi, nell’intento di descrivere un ambito complesso di rapporti e influenze, che legano tra sé le famiglie Sforza, Colonna, Doria e Borromeo.
Mi capita raramente di guardare uno sceneggiato televisivo. Per quella sul Caravaggio con Alessio Boni ho fatto un’eccezione. Non conosco il gradiente di verità storica che contraddistingue mediamente questo format, ma trovai tutto sommato accettabile, anche se troppo “compressa”, la ricostruzione dei fatti, che evitava di indulgere in quei luoghi comuni a cui immancabilmente si attinge quando si parla del pittore lombardo: sregolato, violento, criminale, assassino, omosessuale, maledetto.
Un elemento però aveva acquisito un peso spropositato nella storia: a ogni svolta drammatica, a ogni pericolo, una sorta di fata turchina, nei panni della marchesa Costanza Sforza Colonna, veniva calata nella vicenda e in un attimo risolveva ogni problema. A interpretarla, un’attrice che passa per una reginetta della fiction, Elena Sofia Ricci.
A Roma, nel Rione Monti, c’è la basilica di Santa Prassede. I turisti la frequentano attirati da splendidi mosaici paleocristiani. Qui, tra l’altro, si possono vedere alcuni affreschi del Cavalier D’Arpino, il pittore alla cui bottega Caravaggio lavorò per qualche mese poco dopo essere arrivato a Roma. Nella sacrestia della chiesa, al riparo dagli sguardi del pubblico, è conservato un dipinto di Giulio Romano: una Flagellazione di Cristo, che risale alla prima parte del XVI secolo, in stile manierista, non dissimile da quello che, dopo il sacco di Roma, l’artista legato alla bottega di Raffaello avrebbe portato nel Nord Italia, a partire da Mantova.
Qualche settimana prima di iniziare questo libro, ho cercato di capire su internet quali iniziative sono state intraprese per celebrare, nel 2010, il quarto centenario della morte di Caravaggio. E ho letto che era prevista anche una campagna di indagini radiografiche su alcune opere legate in qualche maniera all’artista. Prima nell’elenco stilato in fase di proposta dei lavori, proprio la Flagellazione di Santa Prassede. Per quale motivo studiare un dipinto realizzato non meno di cinquant’anni prima che Caravaggio arrivasse a Roma? Esiste una corrente di pensiero, che parte proprio dagli studi di Calvesi, che porta a pensare che il dipinto non sia di Giulio Romano, ma di un pittore successivo, che opera forse nell’ottavo decennio del secolo, in quella che era la chiesa di titolo cardinalizio di Carlo Borromeo.
Torniamo ai fatti. Poco dopo la nascita di Michelangelo, i genitori si trasferiscono nella parrocchia di Santa Maria alla Passerella. Ancora Milano, dunque, e a poche centinaia di metri dall’abitazione precedente. Il Mancini ci dice che il padre del Caravaggio, Fermo Merisi, era «maestro di casa et architecto del Marchese». L’affermazione, secondo lo stesso Berra, la cui pubblicazione è ricchissima di notizie inedite e preziose, va ridimensionata. Fermo, riprendendo la professione del nonno, di cui portava il nome, era probabilmente poco più che un muratore. Il padre, Bernardino, era stato commerciante di vini. Nell’ottobre del 1577, Fermo muore improvvisamente, senza lasciare testamento. In un inventario dei suoi beni, che la moglie Lucia Aratori fece stilare l’anno seguente, assunta la tutela dei figli, si citano, « diversi feramenti frusti per l’arte del muratore». «Feramenti frusti», ossia ferri logori. Non si menzionano invece né disegni, né progetti, carte, e neppure gli strumenti di cui si avvalevano normalmente coloro che avevano compiti di rango superiore a quelli di un ordinario capomastro. Non a caso l’affermazione del Mancini è contraddetta tanto dal Baglione, che parla del padre di Caravaggio come di «un maestro, che murava edificii, assai bene», e in seconda battuta dal Bellori, che lo definisce semplicemente «un muratore».
Viene dunque a cadere grazie alle ricerche del Berra, un primo, importante pilastro: il padre di Caravaggio non rivestiva alcun ruolo di spicco nel personale che a vario titolo serviva i marchesi della cittadina padana. Sappiamo inoltre che ancora nel 1576, un anno prima di morire a Caravaggio, Fermo possedeva una casa in affitto a Milano, nella quale vivevano insieme a lui due garzoni. Né tanto meno all’epoca i marchesi di Caravaggio vivevano a Milano, come sostenne a suo tempo Mia Cinotti. Il palazzo milanese del ramo cadetto degli Sforza era infatti stato affittato alla famiglia Cusano. Dunque Fermo era capomastro, e in proprio.
La morte del padre del pittore avvenne nel corso della cosiddetta “Peste di San Carlo”, una violentissima epidemia che colpì la Lombardia nel biennio 1576/77, ed è probabile che i Merisi fossero rientrati a Caravaggio da pochi giorni, proprio per scampare dal morbo, che stava falcidiando la popolazione milanese. In poche ore morirono, oltre al padre, il nonno Bernardino e uno dei fratelli di Michelangelo. La moglie si ritrovò a dover provvedere da sola ai quattro figli. Lucia Aratori aveva allora 28 anni, e tornò a vivere nella casa paterna, in Porta Folcero, restando dunque nel modesto centro della bassa bergamasca. Pochi mesi dopo perse la madre, Caterina Donesani. Il padre Giovan Giacomo era però in grado di sostenerla economicamente: sino al 1584 svolse infatti la professione di agrimensore: era lui a intrattenere i rapporti più stretti con i marchesi di Caravaggio.
Come possiamo immaginare i primissimi anni di vita del giovane Michelangelo? Non abbiamo elementi per dire con certezza se imparò a leggere, scrivere e far di conto, anche se nel borgo viveva un maestro, né tanto meno possiamo stabilire se ricevette un’educazione religiosa: Quel che è certo è che la madre nel 1584 avviò il primogenito all’apprendistato pittorico, e il secondo figlio Giovan Battista al sacerdozio.
Non credo che abbia fondamento il passo del Bellori in cui si dice che Michelangelo da bambino esercitò la professione del muratore: «e portò lo schifo della calce nelle fabbriche; poiché impiegandosi Michele in Milano col padre, che era muratore, s’incontrò a far colle ad alcuni pittori, che dipingevano a fresco, e tirato dalla voglia di usare i colori, accompagnassi con loro, applicandosi tutto alla pittura». È un passo che ha un sapore agiografico. È vero altresì che molti compaesani lavoravano come scalpellini, muratori, carpentieri o capomastri, spesso a Milano o a Roma, città in cui avevano eletto come proprio domicilio la zona di Campo Marzio dove sarebbe andato a vivere il Caravaggio. Non bisogna poi dimenticare che la cittadina bergamasca viveva in buona parte dell’indotto generato dal santuario, che in quegli anni attraversava un momento d’importante rinnovamento.
A dirigere i lavori, a cui dovettero attendere anche due zii di Michelangelo, era stato chiamato, dietro probabile interessamento di Carlo Borromeo, Pellegrino Tibaldi, grande architetto e pittore. Non possiamo escludere a priori che in qualche modo sia stato questi ad accorgersi del talento per il disegno del ragazzino. Esistono infatti diverse attestazioni di un legame tra Pellegrino e Simone Peterzano, pittore bergamasco d’origine e abituato a definirsi «allievo di Tiziano» (un’affermazione che non sappiamo se corrisponda al vero), presso cui Lucia Aratori mise a bottega il figlio per fargli imparare il mestiere. Peterzano aveva lavorato a Caravaggio, ed è possibile anche che l’incontro sia avvenuto tra il maestro e Lucia Aratori sia avvenuto senza mediazione. Ma i Merisi e il Peterzano a Milano vivevano poco distanti, e dunque potevano essersi conosciuti prima del 1577. Il contratto stretto tra Lucia Aratori e il pittore stabilisce che il ragazzo debba abitare per quattro anni, a partire dal 6 aprile 1584, col Peterzano. Tra le clausole, c’era l’impossibilità di rescindere l’accordo, se non a fronte di una penale, e di lavorare per altri, a meno di non avere una speciale licenza concessa dal maestro.
Di fatto, non conosciamo il contenuto dell’insegnamento impartito dal Peterzano. A conclusione del proprio apprendistato, il Merisi avrebbe dovuto essere in grado, per contratto, di lavorare in proprio. E in effetti all’età di sedici-diciassette anni molti artisti dell’epoca erano già in grado, non solo di superare i maestri, ma addirittura di innovare fortemente il contesto in cui si trovavano a operare. Possiamo in tal senso fare l’esempio del genovese Luca Cambiaso, che alla stessa età in cui Caravaggio conclude il suo alunnato ha già iniziato a rivoluzionare la pittura ligure. Per qualche motivo invece l’attività iniziale di Michelangelo Merisi rimane nell’ombra. Negli anni che precedono la sua discesa a Roma sembrerebbe vivere di rendita. Si trova talvolta a Caravaggio, dove la sua presenza è documentata per l’ultima volta nel 1592. Nel frattempo ha perso la madre, e si è dovuto occupare della spartizione dell’eredità con i fratelli. Il che lo ha lasciato in possesso di poche centinaia di lire imperiali, cosa che trova riscontro nelle annotazioni dei suoi primi biografi. Il totale silenzio delle fonti rispetto a questo interludio ha convinto molti, anche in relazione ad alcune indicazioni riportate in una postilla dal Mancini, a ritenere che il Caravaggio sia stato incarcerato, per un delitto imprecisato, a Milano. C’è però sul piatto un’altra ipotesi. Che il Peterzano, e con lui il Caravaggio, intorno al 1588 si sia trovato a Roma, per lavorare nella chiesa di Santa Prassede. Le questioni su cui stiamo ragionando si sarebbero probabilmente arricchite di nuove ipotesi e dati in questi mesi, grazie alla mostra dedicata al Peterzano che si è aperta all’Accademia Carrara lo scorso 6 marzo. A causa del Covid-19, che si è abbattuto come un flagello, con cupe risonanze proprio negli eventi tragici del 1577, sul territorio di Bergamo, ci hanno privato sino a oggi di questa importante occasione di confronto. Una cosa è chiara però. La linea storiografica che accentua il significato del rapporto tra la famiglia Merisi e i marchesi di Caravaggio, automaticamente (ma non troppo, a volte gli storici ricercano partendo da un disegno preciso) rafforza l’idea di un legame tra il pittore e i Borromeo. Dunque l’ala “ufficiale”, ortodossa, della Controriforma, o Riforma Cattolica. (continua)
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