Arte

Brescia, l’arte per uscire dal dolore

30 Maggio 2020

Qualche anno fa al Palais de Tokyo – Site de création contemporaine mi sono trovato a riflettere non sulla singola opera d’arte, per la quale forse non avevo nemmeno tutti gli strumenti culturali per una decente comprensione, quanto sul perché gli artisti avessero cercato quella particolare ispirazione per il loro lavoro. Il Palais ospitava opere per le quali gli artisti, credo, fossero alla ricerca di un processo di intellettuale razionalizzazione e di lettura psicologica dei grandi shock che avevano colpito in poco tempo Parigi e la Francia, gli attentati terroristici alla sede di Charlie Hebdo del Gennaio 2015, il tragico 14 luglio del 2016 sulla Promenade des Anglais a Nizza e la sanguinosa sera del Venerdì 13 Novembre 2015 al Bataclan. Per molti di noi sono episodi il cui ricordo naufraga nell’oblio confuso del terrorismo, un conflitto che non ha un tempo di inizio magari da un balcone o di fine con trattati di pace, non ha giorni della Liberazione da celebrare: ha il dolore dei familiari di chi è mancato, la luce spesso equivoca della politica, la casualità della vittima senza nome, la ricerca di un perché introvabile, “perché io… perché a me…”, indagini difficili e, alla fine, un solo metodo per sconfiggerlo: il togliere l’acqua dove il terrorista nuota, l’affamarlo, il tracciarlo, l’isolarlo da chi inconsapevole o meno gli presta asilo. Conflitti spesso misteriosi, transnazionali paracadutati a rivoluzionare il nostro quotidiano senza un perché: incomprensibili nella paura che seminano perché non sai dove sia il nemico, potrebbe essere l’inquilino sorridente o il garzone del pane con la doppia vita.

Lo sforzo di quegli artisti, sempre credo io di aver capito, non era il nascondere ma il rendere leggibile la paura, collocarla nel nostro animo definitivamente e in ordine, priva del disordine dell’ansia, dare un senso a un dolore collettivo che non aveva trovato ragioni se non in qualche sprazzo sociologico. Un’opera di indagine intellettuale ed emotiva che solo con l’arte contemporanea poteva coinvolgere il visitatore, non certamente un buon libro, un buon film, un susseguirsi di droga televisiva, di convulsi commenti social, di paginate di giornale che potevano rappresentare una cronaca o una storia ma non uno stato d’animo. Forse avrebbe potuto riuscirci la poesia ma serviva qualcosa di meno elitario. Non mi piace paragonare la pestilenza di oggi a una guerra, per quanto a Brescia abbia fatto più vittime dei bombardamenti, anche se per gli scombussolamenti degli animi più colpiti, delle nostre vite per coloro che ne sono consapevoli o inconsapevoli portatori sia asintomatici che sconosciuti al medico, la pandemia richiama gli effetti del terrorismo. Noi non sappiamo dove si celi il contagio perché non ci hanno permesso di saperlo, magari nella doppia vita del garzone del pane che guardiamo con sospetto istintivo dietro a mascherine che rendono incomprensibile l’animo altrui; potrebbe colpirci in qualsiasi momento, come in una gigantesca estrazione a sorte, e senza ragione e senza conoscerne gli esiti. Un dolore per la vittima ma privati del lutto familiare e amicale che lo razionalizzi.
Per queste ragioni mi sono fatto convincimento che la mia città che vuole le fasi 2 e 3 e 4 per “tornare a prima” come se fosse possibile, che vuole tornare a lavorare e non immagina un futuro da mantenuta, tra le cose che deve mettere in campo “a fase crescente” debba esserci “qualcosa” che razionalizzi l’irrazionale, aiuti a comprendere il non compreso, cauterizzi la casualità del dolore, provochi una collettiva catarsi psicanalitica. E questo “qualcosa” può essere per le ragioni sopraesposte proprio la sensibilità e l’inventiva “meravigliosa” dell’artista contemporaneo che al profondo dell’anima parla emotivamente come nessun altro. La città, lo sappiamo, conosce già quella lingua, non è priva di collezionisti, di galleristi e anche di artisti ma nelle sue manifestazioni ha sempre privilegiato la messa in mostra di “ciò che c’è, o c’era”, cioè di frutti di stagioni artistiche mondiali che produssero capolavori e che vengono celebrate di nuovo o di nuovo studiate attraverso temporary exhibition alla ricerca di un effetto speciale nel mare della concorrenza.

E se facessimo un salto di qualità dalla “esposizione” alla “produzione” artistica attraverso uno sforzo di committenza sia privata che ancor di più pubblica? Serve un punto fermo, serve come a Parigi mettere a posto lo scatolone e solo l’arte “nuova” ma non nata per altre emozioni ha strumenti per aiutarci: pensare che non vi sia una risposta alla domanda “perché? Perché io? Perché a me?” non è umano e non possiamo pensare di lasciarla sola e nell’oblio. Se questa lettura ha un suo pur vago fondamento allora bisogna chiedere a chi si occupa di Arte Contemporanea di metterci mano perché l’aurea mediocritas non si addice più a Brescia anche per altri buoni motivi: ad esempio per consegnare al futuro memorie ed emozioni condivise rendendo la città il luogo di questa anima; perché una razionalizzazione del dolore non è una commissione di inchiesta o una sentenza della magistratura e nemmeno un giorno sul calendario per le commemorazioni. Aggiungo: perché in una solidarietà nazionale messa a malpartito dalle paure, dalle incapacità degli eletti e dai sentimenti profondi degli elettori è bene che nel Paese si sappia come si è vissuto e si è morti qui e mi è chiaro sin dai primi giorni della pandemia che fuori da queste province non ci sia stata, per loro fortuna, questa consapevolezza. Perché dobbiamo smettere di vivere bene ignoti ai più, svedesi nei comportamenti (quelli civili, non quelli pandemici) senza che in Svezia si sappia avendo visto quanto sia difficile nel momento del bisogno fare da soli, pur riuscendoci, mentre altri per meno ottenevano di più. Brescia più di Milano e ancor più di Bergamo, e dico purtroppo, è un luogo dell’Occidente Europeo tra i più colpiti e i più coraggiosi ma lo si sa solo dalle statistiche.

Guardate, una committenza artistica anche pubblica con questi fini non sarebbe per nulla fuoriluogo e nella nostra storia è sempre accaduto dopo eventi traumatici: alla fine delle guerre, in qualche caso dopo un terremoto, ma più indietro a Venezia che a fine della Pestilenza costruì la Salute e da sempre la rinascita in Italia si chiama Rinascimento soprattutto artistico. Non possiamo lasciare che il rumore delle sirene a squarciare il silenzio scivoli in un lontano ricordo collettivo e in un non sopito dolore individuale, se dobbiamo avere una ispirazione e fare meglio allora le ragioni di quelle mostre al Palais de Tokyo sono una valente ispirazione. L’Arte, la sensibilità dell’artista, la sua capacità di interpretare l’anima sta per queste ragioni prepotentemente nel nostro immediato futuro: chiamiamolo a noi.

immagini da: The Covid Art Museum Instagram, Barcellona. Restauro della Vittoria Alata di Brescia, Opificio delle Pietre Dure

 

 

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