Arte
Arte, editoria e teatro: tre fantasmi in mutamento?
Siamo entrati in questa fase due tra polemiche e speranze. Chi l’ha interpretata come una liberazione, chi la osserva con sospetto e, infine, chi la vive con un po’ di angoscia. Se più di 4 milioni di persone sono tornate a lavorare, ve ne sono tantissime ancora costrette a casa. I lavoratori dello spettacolo, del teatro, dell’arte e dell’illustrazione sono attualmente intrappolati in una lunga fase di incognite e ambiguità per il loro futuro lavorativo e artistico.
Non basta ricominciare a camminare per riprendere un paese. I teatri sono chiusi, le fiere letterarie sono rimandate a data da destinarsi, le mostre sono chiuse e non solo i grandi musei. Chi lavora in campo artistico si trova non solo in assenza di lavoro, ma soprattutto senza date certe sulle quali contare e indirizzare le proprie energie.
“Tutto friabile, come le sabbie mobili – mi ha confidato l’attrice umbra Cecilia Di Giuli – non saprei come descrivere la situazione. Probabilmente, ci mancano le categorie concettuali, le strutture di riferimento”.
Per capire cosa sta succedendo al mondo dell’arte, ne ho parlato direttamente con chi ci lavora da anni. Ne ho parlato con la già citata attrice umbra Cecilia Di Giuli, ma anche con il fumettista di origini campane Saverio Montella e con l’artista, fotografo e scultore perugino, Francesco Capponi. Accumunati da una passione che nasce nei primi anni della loro vita, la passione per l’espressione artistica nelle sue varie declinazioni, ho chiesto loro cosa maggiormente è mancato nelle loro vite in questi giorni di confinamento casalingo. Il loro campo lavorativo, d’altronde, si nutre di incontri e stimoli reciproci. In assenza di incontri, fatto salvo quelli virtuali, anche il percorso artistico sembra interrompersi in un limbo indefinito, in cui ci si interroga sul destino di queste forme artistiche che la pandemia ha temporaneamente sospeso.
“Manca tutto quel lato del reale, manca l’incontro fisico, del sociale – mi ha risposto Francesco Capponi – Il vedere e fruire le cose dal vivo è diverso. Il guardare un’opera da solo su uno schermo è una cosa, andare ad una mostra è un’altra cosa. Anche le conferenze online sono utili e interessanti, ma sono fatte per non spegnere tutto, sono solo un surrogato. Il vivere l’incontro dal vivo è un’esperienza più profonda perché ricca di tante cose, sfumature, sapori, parole, incontri”.
Il mondo dell’arte è sempre abbastanza dimenticato dal mondo burocratico. Tuttavia, la quarantena ci ha fatto apprezzare tutti quegli stimoli che vengono dal mondo dell’arte, senza i quali avremmo sofferto molto di più il confinamento. Pensiamo a questi giorni senza immagini, libri, film, musica. Il mondo dell’arte e della creatività ci ha tenuti vivi, ma sempre attraverso una schermo.
“Per l’arte andare avanti online è una cosa buona – ha asserito invece il fumettista Saverio Montella – ma è anche vero che se una cosa la chiudi senti la mancanza e la senti anche forte. Questa chiusura parziale ha fatto sì che la mancanza non sia stata mai accusata veramente”.
La riflessione, o meglio la provocazione, sorge spontanea. Chissà che chiudere davvero ogni canale, ogni forma di espressione artistica, anche a livello virtuale, non ci avrebbe fatto apprezzare ancora di più ciò che proviene da un campo lavorativo spesso bistrattato e dimenticato, soprattutto se non si appartiene alla élite dello spettacolo.
“Manca la compagnia, che dopo che ci si va in giro per mesi, diventa un surrogato di famiglia – ha ammesso l’attrice Cecilia Di Giuli – Manca la vita di compagnia, calcare il palcoscenico, il rapporto con il pubblico. Manca la gestione che quotidianamente fai tra la vita personale e artistica, in una specie di strane bolle che si intersecano. Mancano le prove del primo periodo, ma non solo, poiché è un lavoro che si crea e si trasforma quando si è in scena. È un qui e ora. Manca l’evoluzione di uno spettacolo. C’è uno stop non solo dei teatri, ma del percorso artistico e di sviluppo dello spettacolo. Mi manca un po’ tutto. Mi mancano le città che si girano, i cappuccini, la cena con la compagnia, mi manca dar voce a quel personaggio cui mi stavo affezionando”.
Il teatro forse è quello che maggiormente è stato danneggiato dalle misure anti-covid. La sua traslazione virtuale significherebbe riconsiderare il teatro sotto altre categorie concettuali. Il teatro non è solo una realtà fisica, ma anche una struttura storica dell’esperienza umana, che ha a che fare con il simbolo, con il segno. Il teatro cambia con la storia, lo spazio scenico si trasforma con i valori, poiché cambia la funzione politica che al teatro è affidata. “L’essere umano si adatta a tutto – ha aggiunto Cecilia Di Giuli – Quello che ci dovremmo domandare è come questa nuova virata verso l’online, verso una forma che si stabilizza, che non è più del qui e ora, riproducibile e modificabile di volta di in volta, non sia invece rappresentativa di questo momento storico. Allora, succede che ci abituiamo a tutto e potremmo abituarci anche a questo, ma di fatto saltano i presupposti del teatro che abbiamo avuto fino ad ora. La domanda vera è: ci vogliamo davvero abituare a questo? Questa nuova forma diventa rappresentativa del nuovo vivere, in cui c’è il rischio di una desertificazione degli affetti, di una serie di problematiche. Bisogna domandarsi perché e se lo vogliamo davvero”.
Se il teatro cambia forma, si trasforma in qualcosa di straordinariamente diverso, ma in un qualcosa di non ancora esplorato e identificato. Ne deriva una confusione anche in chi scrive e pensa il teatro da fare domani. Lo stesso discorso può valere per le altre forme artistiche. Da anni ci si interroga sul destino dell’editoria cartacea e, ciononostante, il libro cartaceo non è scomparso. “Si sono esplorate le possibilità virtuali, però credo che il libro resterà – sostiene Saverio Montella – Chi legge libri ha bisogno di libri. Non riesco a vedere le mie nuove cose pubblicate online. A me piace il cartaceo, ma credo che possa convivere con il virtuale. Credo che si faranno libri per un bel po’ di anni, se non per la durata di tutta la vita umana”.
Vi è, parallelamente, una diffusa percezione che il confinamento abbia dato nuovo stimolo all’ispirazione artistica, ma questo è vero fino ad un certo punto. Francesco Capponi, ad esempio, ha espresso il suo bisogno di spazio, che in un piccolo appartamento diventa sempre più pressante dopo giorni di quarantena, in un’idea artistica che ha realizzato proprio dentro le mura domestiche. “Chiuso in casa, ho realizzato un piccolo progetto autarchico costruendomi anche i soggetti da fotografare. La casa mi stava diventando sempre più stretta, per sopperire a ciò ho stampato foto di astronauti, che ho ritagliato e sparso per casa inserendoli all’interno di piccoli set. Ho chiamato questi personaggi ‘Space Needers’, giocando concettualmente ad allargare il mio appartamento in un piccolo universo. Ho partecipato con queste foto ad un’esposizione on-line, anche le mostra, come tutto in questo periodo, sono diventate virtuali. Ho sviluppato le mie fotografie in camera oscura ma poi le ho condivise in internet. Per riportarle ad uno stato fisico le ho anche stampate come figurine che saranno consegnate a domicilio o spedite”.
Se da un lato lo stare chiuso in casa, o meglio chiuso nella propria testa, può tradursi in uno stimolo, col tempo, il mantener viva questa creatività sarà sempre più difficile. “Col tempo, diventerà sempre più difficile – ha asserito Francesco Capponi – e poi le opere prodotte andranno prima o poi fatte vedere, andranno vissute. La sensazione ora è quella di stare in pausa. I lavori che mi nascono adesso esprimono tutti una sospensione. Anche qui: i lavori raccontano quello che uno vive. La clausura domestica è un esperienza forte, sconvolgente, ora che siamo tutti chiusi, i lavori tenderanno a raccontare questa sensazione”.
La quarantena è stata anche un momento, seppur imposto dalle circostanze, di riflessione collettiva, che ha portato alcuni a sperare in un mondo migliore all’indomani della tempesta che si è imbattuta sulle nostre civiltà. “All’inizio avevo tanta speranza: speravo che la pandemia ci avrebbe insegnato ad avere un altro atteggiamento col mondo – ha ammesso Francesco Capponi – Più va avanti più vedo il riaffacciarsi dei soliti difetti comuni, interessi privati contro un vero spirito collettivo. Poi, ingenuamente, continuo ad avere speranza. Ci provo e spero che altri ci provino, ma bisogna avere il coraggio di fare un cambio radicale di pensiero, cambiare paradigma, pensare come specie e non come individui. Anche tra artisti bisognerebbe ritrovare una sorta di coscienza di classe, unirci, sradicare quell’egoismo competitivo che ci ha portato dove siamo ora”
“Si parlerà molto di questa quarantena, a me è servita per capire delle cose – ha chiosato Saverio Montella – Però, sono convinto che l’arte si fa con la libertà e non con la paura, che sia paura del virus o di uscire di casa. Le prigioni e le inibizioni fanno sempre male. Io mi cibo molto della gente, delle persone, della promiscuità. Credo che il cuore umano sia il motore di ogni racconto. Sono un grande sostenitore della strada come posto da vivere e come fonte di ispirazione”.
Aldilà delle singole speranze che ciascuno di noi ha nutrito e che ci hanno fatto superare questo lungo periodo di distanziamento dalla propria rete sociale, c’è un aspetto nella visione del futuro che va tenuto d’occhio, poiché attualmente minacciato, un aspetto che va custodito come un tesoro inestimabile, ossia quell’attitudine umana a vedere il futuro come migliore del passato. “Quello che ci stanno togliendo è anche la possibilità di progettualità. Il futuro visto come sempre meglio del passato – ha concluso Cecilia Di Giuli – Attualmente, questa idea di futuro non c’è. Si vuol pure scrivere delle robe ma come le scrivi? Se non si sanno quali saranno le categorie concettuali. Su cosa scrivi? Mancano le basi. Cambiano le convenzioni, i valori e allora come si fa a prevedere di cosa si parlerà domani?”.
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