Arte

Adottare un robot? La nuova frontiera dell’upcycling

16 Dicembre 2016

Avete mai pensato di adottare un robot? Un’idea che può suonare bizzarra, se non fosse che oggi è davvero possibile, grazie all’intuizione di un artista capace di regalare un’anima e un cuore a degli oggetti apparentemente inanimati. Sì, perché i robot del designer Massimo Sirelli (calabrese con base a Torino) non sono solo dei simpatici omini metallici realizzati con materiali riciclati, ma raccontano una storia che viene da lontano: dalla stanza dei giochi di un bambino, dagli oggetti raccolti in giro per il mondo da un adulto che ha continuato a guardarsi intorno con quegli stessi occhi di quando era piccolo. Una storia che ci insegna a prenderci cura delle cose, a non sprecarle, a non buttarle, perché dietro di esse c’è una vita intera. Un gesto d’amore che abbiamo dimenticato, ma che è giusto ricominciare a compiere. E il “papà” dei robot ci spiega perché.

Massimo, le tue creazioni derivano dall’assemblaggio di materiali della più strana e diversa fattura: barattoli di latta, bottoni, viti, molle. Pare di capire, poi, che oltre alle componenti strettamente fisiche, questi robottini abbiamo anche “qualcosa in più”, che trascende il piano empirico. Ma andiamo per ordine: come nascono e come sono fatti?

«I materiali che impiego per costruire i miei robot sono prevalentemente di tipo metallico o comunque utensili che hanno attirato la mia curiosità nei diversi posti in cui sono stato. I primi che realizzai erano composti dagli oggetti raccolti in giro sin da quando ero piccolo: in casa possedevo una specie di atelier, e questi oggetti erano i giochi della mia infanzia, quelli che mostravo agli amici che venivano a casa mia per giocare. Ad un certo punto, però, mi accorsi che i pezzi di questo mio personale museo erano diventati davvero troppi. Erano lì, latenti, li trascinavo con me da tempo. Ne seguì un percorso di liberazione, un lavoro psicologico di distacco dagli oggetti, poiché mi resi conto che mi sovrastavano ma allo stesso tempo non volevo in alcun modo distruggerli. Allora come avrei potuto liberarmi dalle cose che mi accompagnavano da quando ero bambino? La risposta fu: dando loro una nuova vita».

In che senso, invece, i tuoi robot hanno un cuore? Cos’è che li rende “umani”?

«L’anima arriva loro dall’essere oggetti di vita: scatole del caffè che avevo in casa, la sveglia che usavo davvero la mattina per alzarmi e andare a scuola, per non parlare del repertorio preso da casa di mia nonna! Prima di dare in affidamento un robottino, è necessario che gli aspiranti genitori spediscano una lettera contenente le motivazioni per le quali loro sarebbero i candidati ideali ad accudire quello che hanno scelto. Una volta approvata la richiesta, c’è tutto un cerimoniale prima della consegna, dalla scelta della scatola, al confezionamento: questo perché per me sono molto più che oggetti d’arte».

Le letterine di adozione che ti sono state recapitate adducono motivazioni davvero curiose: c’è a chi Gennaro ricorda un amore perduto, chi vorrebbe viaggiare per il mondo insieme ad Allegro, chi, come Marco, sogna di accudire un robot sin da quando era bambino. Tuttavia, sembra emergere anche un velo di solitudine…

«Sì, è vero. Io la chiamerei piuttosto una “malinconica solitudine”. Secondo la mia personale interpretazione, queste persone sono accomunate dal fatto di essere dispiaciute di non essere più bambini. È l’illusione della vita, ed è così anche per me: è l’infanzia che non ho vissuto, e che vivo adesso, da quando mi sono riappropriato della mia libertà di creare. A me piace pensare di essere diventato grande che ero bambino e di essere tornato bambino da adulto. Avrei potuto creare mostri, invece ho scelto i robot: questo è il motivo».

Raccontaci del lavoro con i bambini della Fondazione Prada. Com’è stato l’approccio con loro?

«È stato davvero divertente ed entusiasmante. Nonostante la fisicità da adulto, in quel contesto i bambini vedono in me un loro simile. Tra me e loro, si instaura un giocare alla pari, viene giù ogni barriera. Anche i genitori, levano la maschera da adulti per ridiventare bambini. In fondo, tutti noi lo siamo, abbiamo ancora dentro la creatività immensa di quando eravamo piccoli. È solo che col tempo ce ne scordiamo».

In una società in cui facciamo fatica a provare empatia verso i nostri stessi simili (vedi sbarchi, immigrazione, nuove forme di razzismo in salsa salviniana, eccetera) potremmo definire in un certo senso provocatoria la tua iniziativa di far adottare dei robot?

«Devo ammettere che non ho mai riflettuto su questo aspetto. Finora, mi sono sempre fermato a considerare come concetto chiave quello di ripartire da zero per imparare a prenderci cura delle cose: in questo senso sì, la mia idea è provocatoria. Come ho già detto prima, molti oggetti provengono da casa di mia nonna, gran parte della collezione deriva da lei. Ed è stata proprio lei ad insegnarmi che le cose si possono aggiustare; diceva sempre, riferendosi a un attrezzo rotto o un pantalone scucito: “Se non fosse vecchio, a quest’ora era nuovo!”. Oggi abbiamo perso questo rispetto per le cose».

Prossimi appuntamenti?

«Il 17 e 18 dicembre si terrà l’evento conclusivo con i bambini presso la Fondazione Prada a Milano, durante il quale ultimeremo i nostri lavori che andranno a comporre la mostra dal titolo “L’esercito dell’inverno”. Poi, desidererei tanto portarla a Catanzaro: forse non tutti lo sanno, ma a ben guardare l’intero progetto parla fortemente calabro!».

 

Più info su: www.adottaunrobot.com

 

 

 

 

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