Arte

A 25 anni dalla morte, Miles Davis «canta meglio ogni giorno che passa»

28 Settembre 2016

Cada día canta mejor, così si dice ancora oggi in Argentina di Carlos Gardel, leggendario tanguero morto a 45 anni in un incidente aereo di ottant’anni fa, mentre era al culmine di una popolarità che ancora in vita lo aveva reso oggetto di un culto fanatico. Anche Miles Davis, a venticinque anni – oggi – dalla morte, «canta meglio ogni giorno che passa» e, nell’annullamento della storia propria della retromania imperante, la popolarità della sua musica cresce a misura della sua distanza nel tempo. Della musica lieve e non sempre ispirata degli anni 80 circola ancora qualcosa ridotto a jingle, mentre i suoi gruppi ‘elettrici’ degli anni 70 sono già da tempo punti di riferimento per una vasta area di manipolatori elettronici; e poi c’è Kind of Blue, del 1959, che ha venduto almeno 4 milioni di copie e tuttora ne vende, in vinile, un migliaio ogni settimana. È «l’album di jazz che chiunque conosce se anche conosce soltanto un album di jazz» ed è così feticcio che come tale è stato oggetto di una paradossale celebrazione quando, due anni fa, un gruppo di musicisti tanto bravi quanto ribaldi lo ha ‘clonato’, ossia ri-registrato, cioè ri-vissuto suono per suono, compresa ogni imperfezione ed esitazione, ispirandosi al Pierre Ménard di Borges che si era immedesimato in Cervantes al punto di poter riscrivere parola per parola il Don Chisciotte: monumento funebre postmoderno, il loro Blue rinuncia del tutto a essere ‘jazz’ mentre ne esalta l’espressione quintessenziale, ‘classica’. Ascoltare per credere [All Blues nella versione originale e in quella dei MOPDTK].

Nessun jazzista ha generato un mito come quello di Miles: se si prova a enumerare qualche biopic, dai più antichi su Glenn Miller e Benny Goodman fino a quelli su Charlie Parker e Chet Baker, ci troverete più o meno sempre il romanzo di una vita d’eroe; persino il nostalgico Round Midnight di Tavernier, con un protagonista immaginario impersonato da un jazzista vero, è a suo modo realistico. E lo stesso vale per come il cinema ha raccontato altri grandi neri americani, come Ali o Malcolm X . Il recentissimo Miles Ahead di Don Cheadle – non ancora distribuito in Italia –  si appoggia, invece, appena a qualche verità biografica (in flashback) e inventa di sana pianta una storia fatta apposta per esasperare i tratti già estremi del personaggio: l’enigmatica scontrosità, la dedizione assoluta alla musica, la sincerità spinta fino all’autodistruzione, il machismo. Il Miles di Cheadle è un gangster che si destreggia sparando e menando le mani tra mafiosi, discografici rapaci e giornalisti imbranati, ma qui gli unici elementi credibili sono la Ferrari e i proiettili che ci si conficcarono quando Miles, quello vero, ‘disobbedì’ alla telefonata di qualcuno che gli sconsigliava di suonare in un certo locale. Una bella intuizione di Cheadle è l’ambientazione cronologica: Miles viene ritratto in un momento della sua lunga crisi creativa, che lo coglie nel 1976 e lo sequestra in una depressione di cinque anni buoni, durante i quali rimane quasi sempre segregato in casa, registrando, e controvoglia, poche cose frammentarie. Il nastro di quella seduta nel film diventa, ironicamente, un Sacro Graal su cui si scatena la cupidigia di molti; alla fine Miles riuscirà a recuperarlo e farlo ascoltare agli spettatori ormai incuriositi: ma è un classico McGuffin, contiene una musica appena accennata, inconclusa e inconcludente, che rappresenta bene il vuoto di quegli anni.

Fu proprio il lungo ritiro a dare in seguito a Miles la possibilità di godere, ancora in vita, di una fama ‘postuma’, naturalmente leggendaria, per i quasi dieci anni che gli sarebbero rimasti, anni in cui continuò a fare musica, ma senza più il piglio innovativo che aveva contraddistinto il resto della sua carriera. Negli ultimi anni lo si ascolta soprattutto disegnare, sopra sfondi fusion a volte anonimi, la sua icona sonora, il colore fragile della tromba con sordina Harmon che lui stesso aveva inventato sul principio degli anni 50, sovvertendo la magniloquenza naturale dello strumento aperto con un suono ‘piccolo’, intimo ma pungente, sussurrato a ridosso del microfono. Forse, a ben vedere, l’anniversario dovrebbe essere quello dei quarant’anni che ci separano, oggi, dall’inizio di quel ritiro. Più che un’opinione, è un modo di valutare il Miles anni 80 – quello che i cinquantenni di oggi hanno fatto in tempo ad ascoltare dal vivo – con il suo stesso metro, allorché diceva che per lui il mutamento, il passare sempre a qualcosa di nuovo era un imperativo, «come una maledizione».  Se ne dovevano accorgere gli appassionati, soprattutto negli anni 60 e 70, disorientatissimi quando andavano a sentirlo dal vivo aspettandosi la musica che avevano ascoltato sul disco appena uscito, e si trovavano di fronte tutt’altro. Questo succedeva perché a un certo punto Miles aveva deciso, con perfetta ‘coscienza mediale’, che il disco era un ambiente creativo a sé, che nello spazio rilassato dello studio e poi in postproduzione si potevano sperimentare nuove composizioni e nuovi formati, mentre il palco era la linea del fuoco, dove il canovaccio di un pezzo di repertorio serviva all’improvvisazione più libera e rischiosa possibile. C’è una ricca aneddotica in proposito: come quando, in scena, si avvicinò all’orecchio del sassofonista George Coleman, durante il suo solo, per sussurrargli «sei fuori [dal gruppo]», perché lo aveva sentito suonare la stessa frase su cui lo aveva sentito esercitarsi in albergo nel pomeriggio: «ti pago per far pratica davanti al pubblico, non nella tua stanza». Ascoltare le registrazioni del medesimo quintetto, negli stessi pezzi, una sera dopo l’altra come nella raccolta della residenza al Plugged Nickel di Chicago è un’esperienza molto istruttiva.

Per Miles fare musica era un processo necessariamente evolutivo. Da sera a sera, da tour a tour, da disco a disco. Una volta, erano gli anni 70, i suoi giovani musicisti in studio, si erano messi a suonare qualcosa di vent’anni prima e lui li aveva fermati, tra l’infastidito e l’imbarazzato. Una tale fede nel progresso fa di lui un artista profondamente moderno in senso novecentesco. Si vantava di avere cambiato la musica – non la sua, non il jazz, ma la Musica –  almeno cinque o sei volte. Al netto dell’enfasi smargiassa, c’è del vero. Difficile raccontarlo in poche righe, ma è certo che Miles, pur non essendo un innovatore alla maniera di quelli che hanno costruito o smosso dal profondo le strutture linguistiche del jazz (come Louis Armstrong, Thelonious Monk, Ornette Coleman, Cecil Taylor), non ha creato uno stile personale, ma molti: dopo essersi inventato insieme a Gil Evans un jazz orchestrale completamente differente dalla tradizione delle big band con le registrazioni del 1949, retrospettivamente intitolate Birth of the Cool, ha ‘aperto’ le forme del blues e della forma-canzone in quell’approccio modale all’improvvisazione (su una o più scale, senza strutture vincolanti) che è stato così importante per la musica degli anni 60, come qui in So What,

o nelle musiche a commento del film di Louis Malle Ascenseur pour l’Echafaud, che ha tra l’altro cristallizzato all’istante e per sempre l’associazione tra noir e jazz.

Ma per rendersi conto delle continue trasformazioni interne della musica e dell’attitudine all’improvvisare, e insieme della costanza nella determinazione feroce, nella concentrazione assoluta, nella qualità rituale del porgere al pubblico il proprio lavoro, senza concessioni, senza ammiccamenti, provate a seguire in questa sequenza, ciò che succede ogni due anni circa alla musica di Miles. Nel 1967, il classico ‘secondo’ quintetto con, Shorter, Hancock, Carter e Williams.

Due anni dopo, 1969, il ‘terzo’ quintetto con Shorter, Corea, Holland e DeJohnette, dove alla nuova veste sonora (e agli abiti) corrisponde un nuovo massimo di libertà creativa e imprevedibilità dell’evento.

Appena un anno dopo, davanti a 600.000 spettatori al festival dell’Isola di Wight, l’unico jazzista,

e a seguire le trasformazioni successive verso una musica da un lato più marcatamente funky negli aspetti ritmici ma, se si può, ancora più astratta e aperta negli sviluppi melodici, come in questo cocnerto del 1971 dove Miles modifica la sua sonorità con il filtro variabile del pedale wah wah

per arrivare alle colonne d’Ercole della band ‘africana’ e poliritmica del 1973, per cui la parola jazz non significa ormai più nulla, una formazione deliberatamente ispirata a James Brown e Jimi Hendrix, un formato estremo che si fisserà per un paio d’anni, prima dell’esaurimento e del silenzio.

Si può leggere in questa traiettoria la tensione verso la conquista di quel «deep African groove» su cui Miles da tempo cercava di assestare la sua musica, anche in funzione politica. Il mito dell’Africa, a partire dalla metà degli anni 60 era una potente suggestione per tanti intellettuali neri e nutriva un immaginario in espansione. La posizione di Miles era senz’altro molto meno ideologica di altri musicisti identificabili nell’’avanguardia’, da Archie Shepp all’Art Ensemble of Chicago, ma era decisamente militante. Miles, che proveniva da una famiglia benestante, era da sempre un modello di afroamericano vincente, e si sentiva forte di un successo artistico consoidato da molti anni e di un grande prestigio presso la comunità nera – l’aggettivo che lui preferiva, evitando connotazioni più elaborate o politicamente corrette. L’orgoglio razziale era per lui la base di un programma tutto interno alla sua pratica di musicista, concreto, rivolto alla promozione dei neri nello show business, e all’ipotesi, più che altro un sogno, di una possibile saldatura tra la produzione popolare nera e forme musicali più sofisticate: «Stockhausen più Sly Stone» sarebbe stata la formula di un disco intitolato On the Corner, uscito nel 1972, quando a New York la musica più ascoltata era Soul Makossa del camerunese Manu Dibango.

Questa cornice narrativa è oggi in parte sbiadita, lo si è visto quando il Miles di Kind of Blue è stato prestato, anni dopo la fine, a promuovere il logo Apple all’insegna di un generico «Think different» (come minimo!), ma è necessaria per comprendere la traiettoria di un artista al di là dell’icona, e di una musica che continua a parlare, ancora potentissima e influente come poche altre.

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