L’inchiesta Mafia Capitale di questi giorni nelle sue dimensioni appare certamente limitata, come ha notato qualche commentatore in questi giorni, ma per le sue caratteristiche, per gli attori coinvolti, gli intrecci sottesi e le aree toccate, appare una piccola summa della tragicommedia italiana che continua a svolgersi attorno a un copione farsesco scritto (male) a cavallo tra la fine degli anni ’60 e gli anni di piombo.
Starò ben attento a non immergermi nell’avvolgente melma dell’intera vicenda romana (ma, per carità, nessuno si senta escluso con patenti di “moralità”, a queste latitudini non è il caso).
Di questa piccola storia ignobile che ci tocca raccontare e ascoltare ogni giorno, con crescente indignazione (proporzionale al crescere tutto intorno della melma) alcuni spunti però mi toccano così da vicino che fatico a starne alla larga.
Il primo riguarda il Grande business della gestione dei migranti. Domenico Manzione, sottosegretario agli Interni, dalle colonne di Vita qualche giorno fa sottolineava che i fatti di “#MafiaCapitale” riguardassero ormai un sistema in via di superamento. Sarà anche così, ma da Lampedusa a Mineo fino al CARA di Foggia, le inchieste (qui quella de il Fatto Quotidiano) sembrano mostrare un sistema che rimane vischioso, figlio dei rapporti tra politica, mondo della Cooperazione Sociale (di destra, di sinistra e di centro, come si sarebbe detto una volta) e criminalità organizzata.
Mafia Capitale, da questo punto di vista, è però anche figlia dell’atavica e forse strumentale disorganizzazione della risposta ai bisogni collettivi di questo paese. L’accoglienza non sfugge alla regola. Per anni priva di alcuna norma che la regolamentasse, poi regolamentata in maniera farraginosa e contraddittoria (vedi alla voce Bossi-Fini) e soprattutto sottodimensionata e in perenne emergenza (e si sa come l’emergenza in questo paese sia spesso la madre di ogni speculazione), una vera politica dell’accoglienza l’Italia forse non ce l’ha mai avuta.
Eppure qualche passo in questa direzione non sarebbe complicato e potrebbe ridurre la nostra compiacente collaborazione all’economia criminale del traffico di carne umana che riguarda i migranti. In un appello, inascoltato, di qualche mese fa al Governo Terre des Hommes chiedeva, tra le altre cose:
– la messa a punto di una Banca Dati per la mappatura delle disponibilità in tempo reale dell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati su tutto il territorio nazionale, così da evitare blocchi (dentro i quali si sono spesso annidati i maggiori affari) e da garantire trasparenza sui soggetti coinvolti nella gestione dell’accoglienza;
– l’adozione di un Piano Nazionale per l’accoglienza dei migranti che, oltre a garantire procedure organiche e risorse stabili e sicure per l’attuazione (nella precarietà si creano ulteriori spazi di negoziazione spesso illegali), preveda anche procedure di accreditamento, monitoraggio e rendicontazione più stringenti per i centri e gli enti impegnati sul tema;
– certezza e velocità riguardo l’accoglienza, l’informativa legale (anche i soggetti beneficiari possono contribuire, se maggiormente consapevoli, alla creazione di un sistema trasparente dove le mafie non trovino spazio) e il trasferimento in strutture adeguate dei migranti e, soprattutto, dei Minori Stranieri Non Accompagnati ai quali andrebbe garanti anche la pronta nomina di un Tutore che assicuri la presa in carico e la protezione nel quadro normativo italiano.
Il secondo punto su cui proprio non me la sento di tirarmi indietro riguarda quello che chiamiamo Terzo Settore. La Cooperativa 29 Giugno, quella fondata da Buzzi, 59 milioni di euro a bilancio per gestire migranti, rom, manutenzione del verde pubblico, servizi carcerari e tanto altro, fa parte di questo eterogeneo mondo a cui appartengo anche io.
Non un mondo piccolo, se si pensa che l’intero settore muove tra il 4 e il 5 per cento del PIL e che, una realtà come la 29 Giugno, afferisce a sua volta a un sistema tanto forte, quello di Legacoop, da avere portato il suo leader al posto di Ministro delle Politiche Sociali (qui la copertina del bilancio 2012 della 29 Giugno con Salvatore Buzzi e il Ministro Giuliano Poletti).
In questi giorni il settore ha reagito con molta timidezza ai fatti di Roma. Qualcuno si è appellato alle solite mele marce. Qualcuno ha rivendicato la liberazione della gestione degli appalti dal rapporto con la politica (non si sa bene come, per la verità) e un rafforzamento delle competenze di autodisciplina. Pochi, pochissimi, hanno chiesto a viva voce una riflessione autocritica forte. Ma il Terzo Settore (per quanto sarebbe il caso di ridefinirne i confini e le relazioni interne… Ma questo è un altro post) può davvero permettersi tanta timidezza? Personalmente non credo.
Innanzitutto perché le mele marce non sono così poche e la soluzione non può certo essere l’autocontrollo. Come ricordava Joshua Massarenti dalle colonne di Vita, di casi così purtroppo ce ne sono centinaia nel solo mondo cooperativo e pare ridicolo tirarsi indietro dalle responsabilità quando uno dei compiti dei consorzi dovrebbe essere proprio il controllo sugli associati. È evidente che il meccanismo non funziona, o comunque non funziona da solo.
Il punto è che, di fronte all’arretramento dello Stato e al crescente peso del terzo settore, non possiamo permetterci di far finta di nulla. Non possiamo permetterci, come recentemente è stato fatto, di chiudere l’agenzia competente, senza sostituirla con una vera e propria authority con poteri di vigilanza e sanzione, oltre che di promozione. Non possiamo permetterci di non mettere sulla riforma del terzo settore (in discussione al parlamento) risorse importanti e meccanismi di controllo stringenti, a garanzia stessa del mercato (ebbene sì, siamo imprese private!) e del patrimonio di fiducia circolante. Non possiamo lasciare nell’opacità un settore che invece richiederebbe, secondo una direzione presa in altri paesi, albi pubblici, comunicazione trasparente della Governance e sulle relazioni di potere o sui potenziali conflitti di interesse.
Tutto sommato, credo non possiamo neanche permetterci, come suggeriva tempo fa Carlo Mazzini, che la riforma del Terzo Settore sia affidata agli stessi lobbisti del terzo settore. Una cosa è l’ascolto e l’analisi dei bisogni e delle competenze, altra è la scelta, strategica per il paese, di decidere quale ruolo vogliamo lasciare al Nonprofit, in che direzioni vogliamo farlo espandere, secondo quali regole e forme (spero il più possibile ampie e ibride) e sotto quale o quali autorità di controllo.
In questo spazio potrà tornare a muoversi, secondo logiche di mercato, un’economia sociale più dinamica e meno schiava delle logiche di dipendenza dalla politica o dalla criminalità organizzata.
(Fotografia di Wen Sen Goh, da Flickr)
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