Benessere

Balconi e social network: la gestione della paura ai tempi del Coronavirus

20 Marzo 2020

Una volta si parlava di piazze come luogo della comunità. Le piazze che si svuotano, la perdita del senso identitario di un paese, di una città, a fronte di una crescente parcellizzazione sociale, di un decentramento della socialità, psicologico e geografico, in spazi privati commerciali e in rete. I social che sostituiscono l’interazione dal vivo, il rischio d’isolamento sociale delle nuove generazioni. In questi giorni, nei quali emerge in modo chiaro l’assoluta esigenza di un alternarsi fra socialità e solitudine dell’essere umano, non mediabile – sul lungo periodo – dalla tecnologia, due spazi si prestano all’analisi di ciò che sta avvenendo nelle nostre comunità: i balconi e i profili social. La loro trasformazione, la concentrazione di nuove funzioni relazionali in uno spazio circoscritto e facilmente osservabile offre un’occasione di riflessione piuttosto interessante sulle modalità di reazione a una crisi – quella scatenata dalla diffusione del Covid 19 – senza precedenti per il Paese.

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La prima differenza dalla realtà “ordinaria” è un progressivo annullamento delle distanze fra reale e virtuale. Il fenomeno è apprezzabile in particolar modo su Facebook, meno incline già in origine all’autorappresentazione positiva che interessa i nostri profili Instagram. Se fino a qualche settimana fa infatti era piuttosto facile notare una discrepanza fra quanto mostrato in rete e il vissuto quotidiano delle persone, ora la differenza fra persona e “maschera” si è assottigliata. Da una parte forse un bisogno di verità, in un contesto d’isolamento in cui risulta complesso esprimere in altri spazi la propria identità sociale, dall’altra il venir meno (a causa delle preoccupazioni, della stanchezza, della paura) dei filtri normalmente attivati nel momento in cui ci si presenta al mondo – possibilmente al meglio – in un contesto vetrina quale la rete.

Balconi e profili quindi tendono a mostrare in modo molto più diretto lo spirito che muove le nostre comunità e finiscono per interagire strettamente fra loro. Le “catene” degli striscioni da balcone con la scritta Andrà tutto bene, la campagna delle luci nella notte, della musica alle sei del pomeriggio, degli applausi a ora di pranzo sono partite dalla rete e tornate nella rete. Anche l’iniziativa spontanea dalla quale ha preso il via il “concerto da balcone” (il primo coro nella notte nel centro di Siena) è stata rapidamente riassorbita nel web.

C’è chi parla di riscoperta delle relazioni, dei rapporti autentici fra persone che – fino a pochi giorni fa – nemmeno si salutavano incrociandosi sul pianerottolo. Si tratta davvero di una riscoperta, oppure è – come spesso è avvenuto nell’era del 2.0 – un fenomeno strettamente legato alla “mostrabilità” del fatto, alla possibilità di condivisione non di un momento ma di un’immagine? La risposta ovviamente arriverà nel momento in cui, presto o tardi che sia, le persone riprenderanno una vita quasi ordinaria, con orari d’ufficio, impegni personali e recupero delle relazioni dal vivo messe in “stand by” in questo periodo.

Tornando però a ciò che viene mostrato in questi due spazi, colpisce l’apparente schizofrenia di buona parte della popolazione: da una parte rassicuranti striscioni con mani colorate di bambini, dall’altra insulti a chi si trova per strada per le più svariate ragioni, senza distinzione fra lo sportivo, il lavoratore a fine turno, la mamma che concede cinque minuti d’aria al bambino, l’anziano col cane. E ancora video e fotografie di persone che suonano, che cantano, immagini di positivo rinforzo come quelle di chi pubblica un selfie mentre gioca con i figli, prepara un dolce o legge un libro e le foto scattate di nascosto a chi si trova a passare sotto le finestre dei nuovi tutori della legge (fra l’altro attività normata e perseguibile, in questo caso di fine delatorio, non per decreto provvisorio, ma dalla legge italiana che, grazie a dio, ancora tutela la privacy).

Tutto questo ha a che fare non tanto con la noia, con lo stress da clausura o con un’improvvisa riscoperta della legalità, ma con la paura. Una paura più che comprensibile – della malattia, delle ripercussioni che questa situazione può avere sul lungo periodo per le nostre vite, per la perdita della rassicurante routine di tutti i giorni – che può generare reazioni di difesa, quindi di chiusura in uno spazio percepito come sicuro, o di attacco verso ciò che viene percepito come possibile fonte del problema, quindi con una forte proiezione attiva in esterno. La difesa è il momento di videochiamata con i nostri cari, la fetta di torta in cucina, disegnare con i figli o giocare con il gatto, l’attacco è la ricerca di un colpevole che però non può essere qualcosa d’invisibile e incontrollabile. Ci farebbe sentire impotenti e gli esseri umani hanno bisogno di sentirsi invece artefici, in qualche modo, del proprio destino.

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Così prima – in un’epoca che ci appare remota, nella quale ancora tutto si muoveva secondo le nostre coordinate ordinarie – sono stati i cinesi. Portano la malattia e bisogna isolarli. Negozi e ristoranti chiusi, la paura per chi, con tratti somatici asiatici, doveva aggirarsi per strada. Una madre che teme per il suo figlio adottivo, ragazzi pestati perché “dovete stare a casa vostra” (quando la Cina l’avranno vista, ben che vada, solo nelle foto ricordo dei nonni), fake news sulla carne di topo.  Poi sono arrivate le prime notizie di un possibile caso “ante” Cina e le prime disposizioni contro gli assembramenti. Il problema allora sono diventati i clienti dei bar e dei ristoranti, persone, noi, almeno fino a cinque minuti prima, diventate “altri”. Poi hanno chiuso i bar e il problema sono diventati i ragazzi nei parchi, quei ragazzi che nessuno controlla. E il problema sono diventati i genitori, incapaci di gestire (magari lavorando, visto che il tema del lavoro a casa è possibile ed è un diritto solo per alcune categorie sociali) i figli adolescenti. Poi hanno chiuso i parchi e il problema sono diventati gli sportivi (veri o della domenica non importa), le persone che portano a spasso il cane (“Te lo sei preso, ora gli fai fare la pipì in casa e pulisci”), i genitori con figli piccoli (“Hai voluto i figli? Adesso li gestisci in casa che urlano tutto il giorno”) e gli anziani che vanno a fare la spesa ogni giorno per abitudine consolidata (“Qualcuno li chiuda in casa!”).

L’aumento delle restrizioni ha provocato, via via, un fisiologico inasprirsi dei toni negli “inviti a restare a casa” fatti da parte di chi sente di applicare alla lettera le regole. Non basta il rinforzo positivo, dato dal mostrare al mondo che siamo a casa e stiamo facendo il nostro dovere (non senza un bisogno legittimo, in primis nostro, di sentirci riconfermati nel nostro ruolo di buon esempio), ma aumenta sempre di più il livello di violenza verbale, dentro e fuori dal web, nei confronti degli “altri”. Premesso che la legge è una e deve essere rispettata da tutti, esistono persone titolate a farla rispettare. Abbiamo così poca fiducia nel sistema? La risposta non è razionale, ma emotiva e riguarda, ancora una volta la paura e la necessità di reazione.

Abbiamo bisogno di controllare e denunciare questi “altri”, da un punto di vista psicologico. Anche se non ci fosse più nessuno sotto il nostro balcone, probabilmente incominceremmo a fare a gara fra chi porta giù meno di frequente il sacco dell’immondizia o punteremmo il dito contro chi va a comprarsi il latte fresco ogni due giorni.

Perché stiamo facendo un grosso sacrificio e sembra che nulla cambi. Abituati ad una società del soddisfacimento immediato del bisogno, dove il massimo sacrificio richiesto è quello di attendere 24 ore la consegna di un prodotto ordinato on line, risulta emotivamente molto pesante il concetto di attesa, di sacrificio protratto, di pazienza. Mi sto comportando bene e le cose non migliorano, la colpa deve essere di qualcun altro.

Provare ad analizzare le cause profonde di questa situazione richiederebbe un tempo e un lavoro di messa in discussione – anche di auto analisi delle proprie consuetudini, dei propri comportamenti – molto pesante, troppo pesante per un contesto di stress già così alto.

Domandarsi, ad esempio, quali nostri comportamenti e scelte possano aver causato la crisi della sanità italiana, vero drammatico problema di questa epidemia, comporterebbe un ulteriore carico emotivo. Per ogni sconto richiesto in cambio di una mancata fattura, per ogni delega alla “pancia” in termini di scelte politiche, per ogni concessione al ribasso in termini di diritti sul lavoro, nella salute. Anche perché stavamo sui social a prendercela con chi c’era prima dei cinesi con il virus, così come ora invochiamo l’esercito e i droni.

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Alla fine forse, scesi dai balconi, con meno tempo da dedicare ai social, torneremo in piazza. Con quali pensieri e con quale atteggiamento rispetto ai nostri rapporti sociali, alla comunità credo stia a noi deciderlo, in queste lunghe giornate in casa, a volerci pensare, il tempo non mancherebbe.

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