Costume
Ragione e risentimento. L’amore in piattaforma (parte prima)
Un racconto alimentare in tre parti
A chi mi chiamava per parlare davo ascolto manifestando partecipazione; alle richieste di opinione trovavo una maniera di rispondere dando ragione; alle finte domande di quelli che la ragione continuavano a darsela da soli, assentivo col sorriso di chi annuisce all’ovvio. Era così che restavo sottovento, mentre insieme a tutta la città precipitavo verso l’inevitabile Natale. Per non farmi toccare da un cinismo amatoriale, non opponevo argomenti ai fastidi senza sofferenza, né obiettavo ai lamenti senza dolore. Chiunque era autorizzato a tessere intorno alla presunzione di inconciliabile unicità delle proprie pene, la finzione di una noiosa tristezza che ad altro non serviva che a parlare di sé, prendendo a occasione la diffusa maledizione del Natale. Io invece volevo proteggere queste mie settimane, perché il Natale l’ho deliberatamente adottato in età adulta, per allevarlo a modo mio e cambiargli il destino senza amore, che aveva avuto durante la mia gioventù; ma per ragioni che negli ultimi quindici anni si sono avvicendate, non sono più riuscito a condividere la bellezza e le moltissime possibilità che ancora vedo in questo tempo. Avendo ormai accettato la situazione come lo stato di alcune cose nella mia vita, pago con un poco più di solitudine il prezzo di molta più pace e quindi a partire dall’Immacolata, mi ero semplicemente messo al riparo. Con la ripresa del Paladar, poi, l’urgenza del cucinare mi ha dato occasione per indirizzare le giornate a un fine, per quanto effimero come una cena, e da allora mi basta assecondare il ritmo delle necessità conseguenti, per trovare nelle cose una specie di logica ineluttabile che somiglia al senso della vita. O più precisamente, forse, tutto il da fare logicamente necessario a cucinare principalmente per degli sconosciuti, ha attenuato il bisogno di cercarlo un senso della vita. Passati infatti il lockdown, la successiva prudenza e poi, a seguire, l’inerzia dell’auto isolamento, la ripresa del sorprendente mondo parallelo che è il mio ristorante in salotto, ha ricominciato a proiettare nella mia quotidianità l’inverosimiglianza di un film di Almodovar; fuggevole come la vita di tutti i giorni, ma in alcuni momenti così spudorata e sorprendente, da obbligarmi a pagine di appunti per ricordarmi che è stata verità.
Quest’anno il venticinque dicembre è caduto di domenica, quindi la vigilia che avrei come sempre speso in cucina a preparare il pranzo per il giorno successivo, sarebbe stata un sabato. Fatto che al di là dell’evidenza dell’osservazione, poneva questioni non banali da dirimere in termini di organizzazione. Il sabato infatti era anche il giorno del mercato di quartiere, dove in altre combinazioni del calendario, facevo la maggior parte degli acquisti per il pranzo, ma coincidendo il giorno di quest’anno con la Vigilia, come già nel 2011 e nel 2016, ero obbligato a disporre diversamente ogni attività. Il ventiquattro dicembre, infatti, era impensabile che io mi muovessi da casa. La giornata era già pianificata di ora in ora, per ordinare il tempo in base alla successione di prologhi, svolgimenti e conclusioni necessari a preparazioni che andavano dal doppio brodo di manzo da avviare alle otto del mattino, al baccalà mantecato previsto per le otto di sera. Su questo riflettevo la mattina del sabato ancora precedente, adombrato dalla cupa preoccupazione di chi, nell’irregolarità delle consuetudini, avverte il rischio del caos. Per cui al computer cercavo di capire quali fossero i mercati rionali raggiungibili il venerdì successivo, cioè l’antivigilia, e come distribuire la spesa tra quello che avrei preso sui loro banchi e poi integrato, in caso di emergenza, con gli acquisti in botteghe e supermercati. E in questa baraonda, nessun momento non avrebbe potuto essere meno idoneo per ricevere una nuova mail alla posta del Paladar; ma non essendo io a scegliere, accompagnata dal suono di notifica del computer, arrivò anche quella ad aggiungersi alle mie preoccupanti occupazioni.
A scriverla è Diletta, che in poche righe si presenta, mi istruisce e tutto permettendo, prenota. “Buonasera Gerineldo, ho ricevuto il suo riferimento da Lia, un’amica che lei conosce perché figlia di Girolamo Vago, il professore. Se in risposta a questa mia richiesta vorrà confermare la sua disponibilità , domani sera verrei a cena al Paladar Marconi in compagnia di un conoscente. La nostra reciproca confidenza non è abbastanza da permettere arditezze di qualsiasi natura, ci siamo conosciuti su una piattaforma per incontri online e saremo al primo appuntamento; quindi consideri una piccola dose di estraneità e i possibili imbarazzi conseguenti, quando penserà al menù. Avremo da affrontare questioni che potrebbero richiedere tempo, le chiederei pertanto di preparare una cena semplice, ma che si presti a essere mangiata lentamente. Niente che abbia all’origine grano, orzo, segale e così via, sono celiaca, per il resto confido in lei e nelle sue capacità di ospite oltre che di cuoco. Se vorrà tenerlo in considerazione, sappia che mi piace il pesce, ma mi rendo conto che il breve preavviso non agevola la facoltà di scegliere. Mi rammarico di non saperle dire altrettanto dei gusti del mio commensale, per cui teniamoci in equilibrio, rischiando di essere convenzionali, e restiamo così. Se tutto ciò andasse bene anche per lei, verremmo per le nove. Prima di servire ci lasci un po’ di tempo per parlare. Cordiali saluti Diletta Intraina.”
Dopo qualche minuto passato a ripercorrerla a mente, ho riletto la mail con attenzione, non solo per immaginare una soluzione semplice per me e soddisfacente per loro, ma anche per il gusto di scorrere le combinazioni di quell’italiano da giuristi; consapevole della lingua, ma dominato dall’inesorabile intento di definire, circoscrivere. “Quindi niente linguine con il pesce, per evitare complicazioni, né un piatto unico perché devono fare cerimonia”, ho poi mormorato a me stesso sillabando lentamente le parole; una mia abitudine, quasi un tic, quella di ricercare il contatto tra le labbra e volerne avvertire il suono, ogni volta che come quella mattina non sto parlando da un po’ di tempo. Intanto pensavo che nella ripartizione del mondo tra chi mangia con la pancia e chi col palato, questi due, almeno per quella sera, andavano messi nella seconda categoria. E in questo riflettere su questioni di alterna rilevanza, ho comunque capito che in qualche maniera quella cena si poteva fare, benché la prenotazione fosse per il giorno successivo e nonostante ci trovassimo all’inizio della settimana di Natale. Per cui le ho risposto, “Gentile Diletta, grazie per avermi scritto. Vi aspetto domani sera e confido di poter preparare qualcosa che vi si adatti e sia adeguato ai rapporti tra voi. Cordiali Saluti, GM”.
Con l’avere accettato, era diventata irrimediabile l’urgenza di definire menù, spesa, cucina e servizio, rispettando la sola regola di non forzare i miei mezzi, che era poi il principio su cui si reggeva il mio futuro di gestore del Paladar Marconi. Per il resto, come sempre quando non mi è chiaro l’indirizzo, più che all’ispirazione, mi sono affidato all’esperienza e al ricordo, per cui ho pensato a un aperitivo semplice con olive di Gaeta e mandorle tostate al sale fatte da me, poi a un avvio del mangiare vero e proprio che fosse evocativo, ma non mi costasse quasi fatica, come un bollitino tiepido, fatto col pesce più semplice che avrei trovato; quindi un’insalata di sedano e acciughe per rendere il prologo interessante con una nota fresca, ma anche acida, amarognola e croccante; infine ritenevo appropriato un carpaccio di baccalà insieme alla mia New York Salad; un epilogo in due portate da tenere lì per ore o minuti, a seconda di quanto avrebbero voluto far durare il loro incontro senza bisogno di altre scuse che il cibo. A fare da ritornello fin dall’inizio, sarebbe stato un risotto bianco di mare al timo, da mantenere caldo e cremoso in cucina, ma da servire continuamente, accanto alla doppia coppia di portate, ogni volta che sarebbe stata necessaria un’aggiunta.
Risotto bianco di mare al timo
Un omaggio alla memoria della miglior cena della mia vita, che anni prima, in una notte di luglio, avevo consumato insieme a Mariamedusa, da Nahm a Bangkok. Avevano cominciato con una successione di ignoti splendori in forma di assaggi, a seguire, alle portate principali avevano affiancato sempre una certa quantità di riso; nel loro caso di diverso tipo e diversamente cotto. Senza pretendere di ripetere quella semplice sontuosità radicata nelle tradizioni thai, a volte traggo ispirazione da quella sera, preparando il riso che mi pare più adatto che poi servo e riservo all’occorrenza, per accompagnare i diversi piatti. Non un primo a precedere un secondo, bensì un accompagnamento a tutto e un succedaneo, nella funzione, di quanto solitamente farebbe il pane. Il riso che prediligo è quasi sempre prossimo a un risotto bianco in una delle forme più semplici; dopo la cottura per mantenere il calore lo tengo nel forno a cento gradi; e per preservare per quanto possibile la cremosità, aggiungo, prima di riportarlo a tavola, un paio di cucchiai del brodo o del liquido impiegato per la cottura. Ovviamente bollente, ovviamente mescolando adeguatamente.
Ingredienti. 300 g Riso Arborio o Carnaroli, 1 kg di cozze, il liquido residuato dall’apertura delle cozze filtrato e allungato con brodo vegetale, abbondante timo fresco, mezza cipolla, uno spicchio di aglio, sale, pepe e olio di oliva.
Procedimento. In un tegame faccio aprire le cozze. Cioè metto nell’ordine un filo d’olio, uno spicchio d’aglio incamiciato e le cozze. In massimo dieci minuti a fuoco vivo, si saranno aperte, cotte e avranno rilasciato il proprio liquido. Quindi, usando un paio di guanti per uso alimentare, separo i gusci dal frutto, filtro il liquido e lo allungo con mezzo litro circa di brodo vegetale. Va bene anche quello fatto con un buon granulato. Poi divido in due parti le cozze, una metà abbondante che tengo per il bollitino e una scarsa che aggiungerò al riso.
Per preparare quest’ultimo, faccio stufare la mezza cipolla in una padella antiaderente. Serviranno un filo d’olio, la cipolla affettata finemente e un paio di cucchiai di brodo da aggiungere nel corso dei dieci minuti necessari a una completa stufatura. Al contempo faccio tostare il riso a fuoco alto in una casseruola dal fondo spesso, quindi ci aggiungo il liquido un paio di mestoli per volta, girando di tanto in tanto e impedendo al riso di attaccarsi. A metà cottura, quindi dopo una decina di minuti, unisco il soffritto e una quantità abbondante di timo ripulito dai rametti e filamenti. Quando è prossimo all’essere cotto, quindi adeguatamente cremoso e ancora un po’ duro, spengo il fuoco e affido l’ultimo tratto della cottura alla mantecatura. Aggiungo un ulteriore pizzico di timo, sale se serve, un paio di cucchiai del liquido di cottura, un cucchiaino di succo di limone e olio di oliva; mescolo accuratamente e faccio riposare un paio di minuti. Poi aggiungo il pepe macinato grossolanamente o pestato nel mortaio.
Il Bollitino
E’ un lusso perché è semplice, perché sembra di mangiare il mare e anche perché di tutti i pesci si può usare la versione meno nobile, ovvero meno costosa, e sarà buono comunque. Si mangia tiepido, appena fatto, ma se avanza si può finire il giorno dopo, riscaldato al microonde oppure passato in padella con l’aggiunta di una manciata di prezzemolo per accompagnarlo alle patate lesse. Qualche ingrediente può mancare, qualcuno può essere aggiunto. Io lo faccio così.
Ingredienti. (per 4 persone). 300g circa di calamari (anche quelli patagonici decongelati), 300g di seppie (non necessariamente quelle nobili, del mediterraneo. Vanno benissimo quelle oceaniche, bianche già private della pelle), 300g di gamberi sgusciati, un po’ di cozze e 300g di salicornia marina. Se sono in vena di spese, cioè mai, posso aggiungere uno scampo a testa, ma solo per fare scena.
Procedimento. Porto a ebollizione una pentola d’acqua con dentro un mezzo limone e una manciata di sale. Intanto separo dai ciuffi le seppie e le taglio a listarelle il più sottili possibile. Pulisco i calamari, separo anche loro dai ciuffi, apro il calamaro e taglio in due o più pezzi triangolari in base alla dimensione. (La foto li raffigura bene). I ciuffi possono essere tagliati in due. I gamberi dovranno essere già sgusciati, meglio quelli grossi, tipo argentini, e la salicornia già pulita. Quando l’acqua acidulata, che deve essere abbondante, arriva a ebollizione, metto prima la salicornia, attendo un minuto quindi immergo i ciuffi che sono un po’ più duri, e attendo fino a che l’acqua riprende a bollire. A quel punto ci metto gamberi calamari e seppie e dopo un minuto, al massimo, immergo le cozze già cotte che vanno tuffate in acqua un istante, solo affinché riprendano calore. Dovessero esserci anche gli scampi questi vanno per una ventina di secondi. Comunque un minuto in tutto, poi scolo: la brevità è tutto in questo caso. Attenzione a scolare bene, mescolando il pesce nell’attrezzo di scolatura, per essere certi che l’acqua sia stata persa completamente. Poi trasferisco tutto in una ciotola per insalata, condisco con pepe, limone e il miglior olio extra vergine che ho. Questo è. Servo e in cima ci metto lo scampo. (Che come detto non ho quasi mai).
Insalata di sedano e acciughe
Un diversivo, più che un accompagnamento, nata per finire le interminabili quantità di sedano che avanzano quando lo compero per fare soffritti e brodi, è un’insalata che non impegna in termini economici né di tempo, ma piace sempre a stupisce anche un po’, perché il sedano acconciato nessuno lo mangia mai. Ne bastano due cucchiai a testa di questa insalata, meglio se fatta utilizzando la parte più bianca e con meno filamenti.
Ingredienti. Il sedano che c’è in casa, acciughe sott’olio un po’ fighe (integre, cicciotte sott’olio decente), aceto bianco, sale e olio.
Procedimento. Taglio molto finemente il sedano, condisco prima con aceto di vino bianco, sale e pepe. Migliora quando lo faccio riposare per mezz’ora in frigo e poi aggiungo l’olio e due acciughe a testa che taglio per il lungo in strisce sottili. Il risultato deve essere un po’ acetoso, croccante e amarognolo nel senso delle acciughe.
Carpaccio di Baccalà
Ingredienti. 300g circa di baccalà già dissalato e pronto, sufficientemente spesso e largo, quindi prossimo alla parte alta del pesce. 3cm di radice di zenzero fresco, una manciata di capperi di Pantelleria piccolissimi, olio.
Procedimento. Dopo averli sciacquati, immergo i capperi in acqua tiepida e li lascio per due ore, passate le quali scolo e asciugo con un canovaccio pulito. La radice di zenzero deve essere sbucciata e grattugiata, la polpa filamentosa che se ne ricava, va appoggiata su un colino che definirei da tè e schiacciata col pollice, ne uscirà un liquido da aggiungere a quanto ottenuto grattugiando. Lo zenzero liquido va poi unito a circa 100cc di olio e mischiato con una frusta a mano. Per ultimo, taglio il baccalà a fettine molto sottili, meglio se con un coltello per il pesce, ma in sua mancanza va bene anche uno a lama sottile di quelli che si impiegano per i salumi. Una volta pronti tutti gli ingredienti, dispongo le fette di baccalà su un piatto piano, anche po’ sovrapposte, poi ci disperdo sopra i capperi e copro con l’olio-zenzero. Sigillo con la pellicola trasparente e lascio riposare in frigo per un’ora. Prima di servire va lasciato a temperatura ambiente per una ulteriore mezz’ora per evitare gli eccessi di densità dell’olio freddo.
New York Salad
Deve il suo nome a un altro ricordo di quando io più che quarantenne, andai per la prima volta a New York con Mariamedusa dodicenne e la sera preparavo la cena nel nostro appartamento di Alphabet City, cercando di battere il tempo prima che lei crollasse addormentata dopo l’intensità di quelle giornate piene di stupore per l’America. La casa l’avevo scelta perché prossima al 151 di Avenue B, dove alla fine era vissuto Charlie Parker, ma in fatto di varietà alimentari in quella zona trovavamo poco. Nel colmadino gestito da un tedesco sotto casa, compravo allora un limone, un avocado e pomodorini, per preparare qualcosa di vegetale per accompagnare l’immancabile pasta al sugo. E ogni tanto la rifaccio: resta in tavola anche ore senza deteriorarsi, è acida e fresca e ha una consistenza che accontenta lo stomaco. Se poi avanza, il giorno dopo fa ancora il suo mestiere. E insomma anche questo è un valore.
Ingredienti. Un avocado, il succo di mezzo limone, pepe, pochissimo sale, poco olio.
Procedimento. Va preparata in due fasi distinte per i pomodori e l’avocado. Taglio prima in due l’avocado e riduco ciascuna metà in fettine semicircolari non troppo sottili, poi le taglio a loro volta in due. Aggiungo abbondante pepe macinato grossolanamente e il succo di limone. Faccio riposare in frigo per circa un quarto d’ora. Poi preparo i pomodorini tagliati a rondelle o se troppo piccoli, in quattro parti, conditi con sale e poco olio. Quindi li riunisco all’avocado e la NY Salad è pronta.
(Segue venerdì 20 gennaio)
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