Il buonismo preterintenzionale
Seduto al tavolino di un bar in una zona di Torino ancora nella fase aurorale della sua riqualificazione, guardo due ragazze sedute al tavolo accanto. Una è di spalle. Le vedo la nuca rasata con cura a sfumare su un taglio corto. La mia nuca e la sua sono forgiate allo stesso modo, ma le invidio la sofficità dei suoi capelli corti su cui non nutro, al solo guardarli, alcun dubbio. Di fronte a lei l’amica ha un taglio anni 30 e la faccia all’avanguardia. La guardo, penso “avanguardia”, e mi rendo conto che non è il termine giusto. Non c’è il termine giusto. Non ne basta uno. La definizione giusta è che la sua faccia si trova in quel fugace momento della giovinezza in cui lo sguardo è così spalancato su un campo aperto, sconosciuto e spaventoso, da risultare più capiente del mondo che guarda: le labbra incerte non sanno mai se piegarsi al riso perché sopravvalutano la normalità, o inclinarsi alla tristezza perché ne temono la degenerazione.
Il suo viso mi ricorda il futuro.
Ed è incredibilmente bella. Rende blasfema la sola ipotesi di aprire lo smartphone e finire in posti retroilluminati in cui lei non c’è.
Riesco a carpire qualche frase. La ragazza dai capelli corti ha il tono del coach, quella anni 30 ha la tensione del boxeur. Non sono autorizzato a dedurre che la ragazza anni 30 tra pochi minuti farà un provino per una produzione cinematografica o televisiva, ma mi permetto il lusso di deciderlo perché so che lì vicino ci sono delle società di produzione, perché lo capisco da come è vestita, perché quando guardo lei vedo i libri della libreria dei genitori che sono almeno in parte uguali ai miei, vedo un mondo affine al mio.
Confido nel pregiudizio perché ho 43 anni e il pregiudizio è l’unico muscolo che nel tempo abbia aumentato la sua tonicità, l’unico senso che si sia acuito, la parte di me che sbaglia con minore assiduità.
Arriva il caffè. L’istinto punterebbe allo zucchero bianco. La ragione ripiega su quello di canna.
E allora succede.
– In bocca al lupo! – dice Capellicorti.
– Viva il lupo! – risponde Anni30.
Bastano queste due battute. Anni30 si alza ed esce. E io non sto più bene come stavo pochi minuti prima.
Quel “viva il lupo” mi fa a pezzi. Mi irrita, ma di una irritazione che è subito voglia di vendetta.
“Viva il lupo, un cazzo!” penso, e di colpo tutta la mia storia, quel quarto di secolo passato nel Novecento, si ribella, chiede il sangue dolciastro di quest’epoca dello zucchero di canna.
Me lo ripeto per farmi coraggio: non sei vecchio, non è una noiosa questione di principio e linguaggio.
Io so di essere uno dalla soglia alta. Che si usi “piuttosto che” in una disgiuntiva “piuttosto che” in una comparativa. Che si metta quel dannato apostrofo tra “qual” ed “è” e vaffanculo, non ne parliamo più. Solo un minorato non saprebbe riconoscere, dal senso della frase, un “piuttosto che” disgiuntivo. E, persino nei momenti più bui, sono sufficientemente lucido da capire che non ci estingueremo certo per avere abusato di un apostrofo.
Ma “viva il lupo ” è diverso. Lì c’è qualcosa di grave che facciamo finta di non vedere.
Forse mi irrita a dismisura perché non ho ancora provato a definirlo.
Bevo il mio caffè. È più amaro di come sarebbe stato se avessi usato lo zucchero bianco. Lo sappiamo tutti, ma per quieto sopravvivere non diciamo nulla.
Allora decido che io non mi alzerò da quel tavolino se prima non sarò stato in grado di definire l’orrore di “viva il lupo”.
E mi viene in mente “Buonismo Preterintenzionale”.
Perché io lo so che quella ragazza non vorrebbe far niente di male con quel suo inneggiare al lupo, ma preterintenzionalmente sta distruggendo la fiducia che è sacro riporre nell’intelligenza collettiva.
Lei non sa che augurando lunga vita al lupo sta gridando: non mi fido di voi, non credo sappiate distinguere un modo di dire da una condotta.
Aver trovato le parole giuste non mi calma del tutto ma mi rende meno impaziente. E così rifletto su quante cose abbiamo cominciato a pensare da pochi anni a questa parte – dagli anni dello zucchero di canna – che sono figlie dello stesso padre: il buonismo preterintenzionale. Quando non ci abbandoniamo alla risata se la barzelletta, come le è di diritto, si nutre della parte più sessista, sgraziata e cinica del nostro immaginario. Quando vediamo una “biedda picciotta” servire ai tavoli o un “bel fiol” prepararci un cocktail e una parte di noi si irrita, pensando che qualcuno, aspirando allo stesso posto di lavoro, non lo abbia ottenuto, perché meno avvenente. Come se tutto fosse alla portata di tutti, come se l’obeso potesse fare il maestro di yoga, come se l’algido idiota potesse fare lo scrittore (oddio a dire il vero qualcuno che ci riesce c’è).
Arriva la persona che stavo aspettando in quel bar.
Mi distrae. Parliamo di ciò di cui ci tocca parlare in quell’occasione. Dopo una mezz’ora sono fuori a cercare di ricordare dove ho parcheggiato la mia macchina, sopprimendo l’irritazione che mi dà sapere che ho pagato del denaro per parcheggiare la mia auto che è fatta al 22% di iva e al 5% all’anno di bollo e assicurazione, in una via della città in cui verso le tasse comunali, solo perché qualcuno ha deciso di contornare i parcheggi di un blu mercenario. E lei è lì. Anni30 cammina felice verso di me.
Dio mio se è bella. Dio mio quanto sono ancora più grandi di prima i suoi occhi.
Aspetto che mi raggiunga.
– Com’è andato il provino?
Mi guarda stupita, poi ricorda di avermi visto al tavolo accanto al suo, capisce e risponde: – Oddio, spero bene! Io ce l’ho messa tutta. Speriamo!
Sorrido.
Ho solo una battuta. Non ho altro che quella se voglio provare a tardare il momento in cui lei sparirà.
Dovrei dirle “In bocca al lupo!”.
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