Costume
I disagi delle civiltà o le civiltà dei disagi
Certo che a ripensare agli anni della mia giovinezza, in Italia, e confrontandoli coll’oggi, sempre in Italia, si può dire che la sensazione di disagio che allora c’era è una lontana parente della percezione del disagio che c’è attualmente. Sono disagi diversi ma accomunati da una sensazione di precarietà, disuguale, certamente, ma che si porta dietro una serie di angosce esistenziali e generazionali, dilemmi non risolti un po’ per la reale complessità, un po’ per pessima volontà di analisi, un po’ per il rapido cambiamento, tuttora in divenire, dei fattori che compongono i problemi.
Gli elementi di questi disagi sono talmente tanti che affrontarli è un’impresa in continuo progresso e spesso un percorso produce effetti assai ridotti, qualora non nulli, proprio grazie alla velocità parabolica degli eventi che si susseguono e che nella maggior parte dei casi vanificano il programma di risoluzione dei disagi, quando fortuitamente ci si arriva, magari per somma di errori. Perché le caratteristiche principali dell’epoca attuale sono – oltre, naturalmente, a vantate competenze unicamente scritte nei CV e che rimangono parole, spesso bugiarde, scritte e basta – la semplificazione e la velocità, la rapidità con cui tutto viene combusto, incenerito, polverizzato e riciclato, se va bene. In genere si butta via e basta. La tendenza alla rottamazione, degli oggetti e delle persone, è una frenesia molto moderna, possiede i corpi e le menti di parecchi che non vedono nient’altro che la sostituzione di ciò che secondo loro è obsoleto, vecchio, scomodo, come se la muffa avesse inevitabilmente invaso il vasetto della pregiatissima marmellata di frutti rari fatta dalla zia Luisa, dimenticato aperto fuori dal frigorifero, perché tanto a conservare non si è abituati, e si fosse partiti di corsa per la settimana bianca. Dopo una settimana, se gli scarafaggi non avranno completamente divorato i preziosi resti, lo avrà fatto la muffa. I vasetti di pregiate conserve che sono spesso le persone vengono così gettati via, considerati scaduti, per le più varie ragioni che vanno dalla pigrizia alla smania di vivere tutto nell’attimo presente e immediatamente successivo, senza riflettere che le persone sono (certo, non tutte), a qualsiasi età, una risorsa per il resto della comunità, soprattutto per i più giovani e, forse, con una certa dose di esperienza che non si può misurare attraverso la dimestichezza colla tecnologia o con altre diavolerie moderne. L’uso che si fa della tecnologia è una delle cause di questa febbre di rottamazione. La velocità a cui la tecnologia ha obbligato tutti – ma in realtà non è la tecnologia in sé a produrre questo fenomeno bensì i produttori di tecnologia, che forgiano e perseguono le leggi capitalistiche del consumo – ha investito anche dei bioritmi che, come si sa, seguono dei ritmi assai più tranquilli e hanno bisogno di una metabolizzazione meno sollecita, e non si può obbligare tutti a essere informatizzati per poi farli dipendere dalle macchine che, inopinatamente, possono anche guastarsi e lasciarti a piedi. Possono cadere per terra e rompersi in mille pezzi, per esempio. Possono avere la batteria scarica e non esserci punti di ricarica nelle vicinanze. Possono semplicemente funzionare male perché difettose. Oppure, vedi i fallaci navigatori di Google, possono indicarti a volte la strada sbagliata, com’è successo di recente a centinaia di turisti in Sardegna che si sono ritrovati nel nulla. È successo anche a me sia nei dintorni di Prato che in Campania e in Sicilia, quindi forse significa che ste google map sono ’na fetenzia. Alla fine c’è anche un aspetto di fragilità della tecnologia che pochi tendono a considerare. Comprendo benissimo come la tecnologia abbia percorso distanze impensabili nei campi di applicazione utile, come la medicina, la comunicazione o altri rami, ma quando istituzionalmente si decide che, se non hai una pec o un computer o uno smartphone sei tagliato fuori, la tecnologia ha superato i limiti di tollerabilità.
Un’altra cosa che mi fa morire dal ridere è la pagella della vivibilità delle città, sciorinata da quotidiani e riviste che vorrebbero essere considerati seri, dove i parametri di vivibilità sono soprattutto quelli del Sole24ore, per cui forse se nel raggio di cento metri in quella città ci sono dieci o venti bancomat o è “tecnologica” o ha determinati “servizi” o una “ricchezza”, quel luogo diventa il primo classificato. Cortina, Portofino, Courmayeur come la Costa Smeralda sono posti dove la qualità è probabilmente altissima. Per ciò che mi riguarda trovo infinitamente più vivibile Trapani, colla sua aria pulita sempre cambiata da un vento marino che non cessa mai, con i prodotti alimentari locali di una qualità incomparabile, con una vita culturale di media provincia discretamente interessante, con un territorio praticamente senza industrie inquinanti e così via, piuttosto che Milano, che avrà tutti i pregi delle metropoli ma:
a) non ha il mare limpido e profumato di Trapani;
b) non ha un’aria che comunemente si intende respirabile, con conseguenti patologie respiratorie e circolatorie, per non parlare di quelle oncologiche;
c) il costo della vita è spaventosamente alto rispetto a Trapani;
d) l’ottimo pesce fresco di Trapani lo si può trovare pure a Milano (viene da Mazara) ma a un prezzo triplicato rispetto a Trapani;
e) il clima meraviglioso in estate e in inverno, salubre per i polmoni e tutto il corpo che ha Trapani, Milano se lo sogna. Ciò vuol dire somministrazione di calore invernale limitata a poco tempo rispetto al rigido clima padano, a dispetto del “riscaldamento globale”, che si traduce, per tornare al punto b, in migliore qualità dell’aria per mancanza di emissioni di polveri combuste, oltre che in un bel risparmio energetico;
f) varie ed eventuali che mi annoio ad elencare qui.
Milano risulta essere al primo posto della classifica del Sole24 ore, Trapani all’89°. Quali saranno mai i parametri utilizzati per far apparire in fondo alla classifica (le città analizzate erano 107) una cittadina di provincia così animata, ricca d’arte, cultura e natura, con un porto e un aeroporto efficienti, certo non come Malpensa 2000, 3000 o 4000, ma adeguati a una città delle dimensioni di Trapani? Peraltro quartieri ghetto delle periferie milanesi a Trapani non possono esistere proprio perché manca una struttura da grande metropoli, con conseguenti tensioni sociali praticamente inesistenti. La qualità della vita milanese è limitata alla prima cerchia dei navigli, probabilmente. Forse vuol dire avere corso Como o la Galleria Vittorio Emanuele e un hinterland ricchissimo di industrie, La Scala, il quadrilatero della moda? Come si fa a paragonare e a mettere in competizione, col pretesto della qualità della vita, una metropoli di quattro milioni di abitanti e una città con sole sessantottomila anime in due territori completamente diversi? Chi non conosce il territorio di Trapani potrà immaginare un deserto e la desolazione, forse, vista la classifica. Non immaginerebbe mai che l’intera provincia è uno dei terreni più coltivati d’Italia. Col clima benedetto di cui dispone Trapani la vite, l’olivo, gli alberi da frutta prosperano, oltre alle coltivazioni di cereali (ultimamente sono state riprese anche le coltivazioni di quelli antichi, con un notevole incremento economico e salutista per i consumatori), e da Marsala al Belìce si può dire che siano pochi i metri quadrati di tutta la provincia che non siano coltivati con un profitto enorme. Ci sono aree archeologiche come Segesta, Selinunte e Mozia, spiagge e riserve come Zingaro, San Vito, le Egadi, e città e luoghi talmente suggestivi e ricchi di storia e di natura che il turismo ha riscoperto e apprezzato. Trapani è il capoluogo di questo territorio e la città antica seduce per la sua armonia. Tutto ciò non sembra essere calcolato nei parametri della qualità della vita secondo il Sole24ore. Non ci saranno venti bancomat nel raggio di cento metri, va detto, ma sono poi così importanti, in questa frequenza, in un luogo come Trapani? E come Trapani sono molte altre città italiane, per lo più periferiche, ho scelto Trapani perché è una realtà che conosco bene. Forse il fatto di essere ai confini della realtà penalizza luoghi spettacolari? Si vorrebbe il parco dei divertimenti a dieci km da piazza del Duomo?
La presenza dei bancomat – anche se, vista la guerra al contante che si sta intraprendendo, come vedremo, si deduce che scompariranno – è una cosa che può diventare fondamentale se non vi annoierete a leggere quanto segue. Capisco di essere tremendamente noioso, in fondo sono sempre scontento e non faccio che lamentarmi di ogni cosa. Forse perché ho la pessima abitudine di non fermarmi alla superficie.
Una delle cose che più mi colpisce è questo voler per forza obbligare tutti all’uso delle carte magnetiche al posto della cartamoneta o delle monetine vere e proprie. Io cerco di immaginare mia madre che ha novant’anni, che non ci vede bene, che a stento ricorda il numero del suo telefono, come potrebbe far fronte a un simile obbligo ciecamente apparecchiato da governi di rottamatori. Come mia madre ci sono altre centinaia di migliaia, anzi milioni, di persone più anziane o meno anziane che, ricordiamolo, sono la maggioranza nel paese e che non tutte hanno la fortuna di avere dei figli che si prendono carico delle generazioni precedenti. Un provvedimento come quello lo considero una crudeltà inutile. Viene spacciato per provvedimento antievasione ma in realtà è un’invasione della vita privata delle persone, di tutte le persone, un controllo millimetrico di qualsiasi movimento del cittadino, dall’acquisto al supermercato a quello sul sito porno, da articoli alimentari particolari ai gadgets d’ogni tipo, dai libri alla musica, all’arredamento, e così via.
Ora, perché mai io dovrei sottostare a un simile controllo? Perché mia madre o la persona anziana con difficoltà o senza dovrebbe rendere conto di ciò che compra coi suoi soldi, i soldi della sua pensione, i soldi dei risparmi di una vita che si assottigliano sempre più? Per compiacere le banche, per compiacere i commerci carsici dei governi colle banche? A parte la mancanza di percezione, per molti, della disponibilità di soldi proprio grazie all’inesistenza di questi ultimi che la carta mette in evidenza: la virtualità di tutto contro la materialità dei contanti.
Immaginiamoci il quadretto in un paesello della campagna italiana, sia esso in Sicilia o nel Trentino Alto Adige (ops! Ho scritto Alto Adige! Ho commesso un reato! Me ne assumo la piena responsabilità). Nell’interno della Sicilia, così come in molte altre parti d’Italia, per fortuna è ancora possibile andare a comprare la ricotta o i pomodori direttamente da produttori locali. I quali produttori locali possono anche essere piccolissimi imprenditori che, per il volume di affari irrilevante, fanno i loro commerci minimi coi vicini in contanti. Dubito che si debbano obbligatoriamente fornire di POS anche dove magari la linea telefonica non esiste, in mezzo alle campagne vaste e desolate in cui pascolano le pecorelle, e anche il cellulare è spesso muto. La stessa cosa può valere per un contadino dell’Appennino centrale o della val Pusteria, magari in una di quelle meravigliose valli chiuse dove non esistono che antichi masi con anacronistiche stalle, perché ce ne sono ancora, non tutto è lindo e pinto e artificiale come chi sta nei palazzi del potere crede che sia. L’Italia è fatta anche di queste diversità e “arretratezze”, se vogliamo, ma meno male che resistono. La pietosa bugia del controllo dell’evasione fiscale è talmente evidente che verrebbe voglia di bruciare tutte le banche in un solo falò. Chissà se qualcuno, nei vari ministeri, ha previsto dei controlli nei porti, soprattutto, di tutti i container che arrivano da ogni dove e che conducono in Italia una quantità smisurata di merci contraffatte e pure pericolose per la salute. Altrimenti non si spiegherebbe la loro presenza così invadente sul territorio. Il controllo, invece, si fa attraverso il POS, standosene tranquillamente seduti in poltrona davanti a un monitor, magari sorseggiando un caffè e mangiando un panzerotto – pagati con bancomat, forse – o tirandosi gli aerei di carta tra colleghi. Ovviamente l’evasore non è il grande imprenditore che magari fa movimenti un po’ strani di capitali all’estero o che investe, pensate un po’, in opere d’arte – sull’opera d’arte come bene rifugio e sulle truffe relative ci sarebbe da scrivere un romanzo – e se ne riempie i magazzini ma il trattore, il fruttivendolo, il pizzicagnolo o il pastore. Anche lo studente universitario che magari dà ripetizioni al figlio della vicina per poter affievolire le enormi spese per l’istruzione che oggi pesano su chi in Italia vuole studiare e non ha molte risorse. Sarebbe divertente considerare lo studente un evasore e multarlo per non avere un POS, oltre naturalmente a multare la vicina perché lo ha pagato in contanti, anche pochi euro. Può darsi che assecondando questa smaniosa follia punitiva ci si arriverà. Facendo finta di ignorare e facendolo scordare al popolo italiano che la Chiesa è, in Italia, il primo, enorme, evasore fiscale, grazie al concordato e protetta proprio da quest’ultimo, ma anche questo sarebbe materiale per un romanzo in venti volumi. Il voler rottamare tutto per condurre inevitabilmente a una telematizzazione dell’intelematizzabile è uno dei molti disagi di questa civiltà.
© Ottobre 2019 Massimo Crispi
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