Costume
Maternità surrogata e il tabù del discrimine di classe
È di poche ore fa la notizia di due italiani bloccati con bimba nata da maternità surrogata in Argentina. I padri hanno ammesso il ricorso alla pratica della gpa dopo alcune verifiche avvenute in aeroporto, dove erano stati accompagnati dalla gestante per altri. Il caso arriva alla cronaca a poche settimane dalla dichiarazione della gpa reato universale nel nostro paese, riaccendendo il dibattito, che non si era mai spento a dire il vero. Fermarsi a riflettere sul tema è necessario, soprattutto cercando di far riferimento ai dati, che dimostrano, ad esempio, come in Italia a fare ricorso a questa procedura siano in maggioranza coppie eterosessuali con problemi procreativi.
Nel mare magno delle discussioni politiche, etiche, morali, poche parole sono state spese su una questione centrale: il problema è economico e legato allo sfruttamento del bisogno. Da un lato quello delle gestanti per altri che prendono questa decisione perché costrette e non per libera scelta, dall’altra chi ricorre a questa procedura come sola possibilità di genitorialità.
Eppure il tema economico nella genitorialità medicalmente assistita è centrale e deve essere affrontato senza moralismi o ipocrisie di comodo da “testa sotto la sabbia” rispetto alle storture di un sistema in cui viviamo quotidianamente immersi. La gpa ha un costo, la pma (procreazione medicalmente assistita) ha un costo, anche le cure per la fertilità hanno un costo e solo chi ha una certa disponibilità economica si può permettere questi percorsi.
“I figli non sono un diritto” dirà qualcuno. Eppure per molti la piena realizzazione di sé passa proprio dalla creazione di una famiglia. Eppure il messaggio che, fin dall’infanzia, viene inculcato alle donne (soprattutto) e agli uomini (anche) è che la strada verso la realizzazione adulta passa dal conseguimento di un titolo di studio, da un posto di lavoro, da una autonomia economica e che tutte queste cose hanno poi come obiettivo finale quello della creazione di una famiglia. Lo dimostra il fatto che, pur essendo un terzo del totale delle famiglie italiane, nessuno – nel dibattito politico e culturale – si stia occupando delle persone appartenenti a nuclei monofamiliari (single che vivono soli, per semplificare). I provvedimenti di carattere socio-economico in sostegno alla popolazione adulta in Italia sono quasi sempre rivolti alle famiglie con figli e – al di là delle criticità che questo sistema mostra per chi deve affrontare la vita da solo, contando unicamente sulle proprie risorse – questo dimostra come il modello di riferimento a cui siamo abituati quando pensiamo al concetto di realizzazione familiare sia quello legato alla genitorialità. Che però non è un diritto, seppure a volte, soprattutto nel recente dibattito politico, possa apparire a qualche attento osservatore quasi un dovere, o quantomeno una necessità sociale a fronte del costante calo della natalità. Se pensiamo poi all’influenza culturale della religione cattolica nel nostro paese, il fatto che il papa abbia dichiarato che negare maternità e paternità ci toglie umanità non è un dato culturale trascurabile. L’impasse è dietro l’angolo. Da una parte cresciamo con un modello aspirazionale di riferimento – che per le donne rappresenta da sempre una sfida, se solo pensiamo alla scelta fra carriera e famiglia e ai problemi di conciliazione, ma anche allo stigma che ancora colpisce le donne adulte senza figli, costrette a esplicite o implicite giustificazioni rispetto alla loro condizione, soprattutto se hanno un partner a fianco – e viviamo in un contesto che invita quotidianamente a prendere in considerazione i rischi sociali ed economici (oltre che personali) di un futuro prossimo con pochi nuovi nati, dall’altra a fronte di problematiche legate alla procreazione, il tema “etico” copre interamente la questione del divario economico.
La categoria di chi non può avere figli in modo “naturale” si divide in due: chi può permettersi le pratiche medicalmente assistite e chi no. Allo stesso modo anche la categoria di chi decide di gestire una maternità per altri si divide in due: chi può scegliere liberamente di farlo (su base volontaria con un rimborso spese) e chi è costretta a farlo perché in una condizione di svantaggio socio-economico.
A pagare il costo personale e sociale di questo divario e della mancata presa in carico di una discussione seria sulle possibili normative a tutela della materia sono solo e sempre le categorie meno abbienti e questa, purtroppo, non è una novità. Fermare neonati al confine non risolverà il problema. Dichiarare una pratica medica reato universale nemmeno. In un contesto scientifico in cui l’utero artificiale è, sostanzialmente, alle porte, il rischio di un ulteriore spaventoso divario fra classi sociali è dietro l’angolo. Se i figli non sono un diritto ma un desiderio, come si colloca quest’ultimo in una società capitalistica che, di fatto, vive di desideri (indotti o spontanei poco importa) a cui dare risposta attraverso uno scambio economico? È un desiderio che devi “meritare” su base biologica o soddisfare su base economica? E se il “merito” di una genitorialità “naturale” rischia di essere messo in forte discussione dall’età sempre più avanzata degli aspiranti genitori (spesso, anche qui, motivata da ragioni di precarietà economica protratta) accetteremo di buon grado un’ulteriore flessione delle nascite affrontando con pensieri diversi l’inverno demografico? Forse il tema da affrontare potrebbe essere la necessità di un aiuto – normativo ed economico – nei confronti di chi desidera figli e non può averne in modo “naturale”. Anche nello snellimento dei percorsi e delle procedure per l’adozione, non solo per i percorsi di genitorialità medicalmente assistita. Quantomeno per un possibile futuro più equo. Intanto, nel nostro inverno demografico italiano, continuiamo l’inutile selezione fra “famiglie buone” e “famiglie cattive”. Si vede che possiamo permetterci la selezione all’ingresso.
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