Costume

La generazione ‘Cocco’. E un babbo

8 Maggio 2016

La morte di Lamberto Lucaccioni – il 16enne di Città di Castello scomparso, a luglio, dopo aver assunto ecstasy all’interno del ‘Cocoricò’ – è stato uno dei ‘casi’ di cronaca della scorsa estate italiana. In Riviera – per quella morte e per la serrata della discoteca più nota del Paese –  sono scesi gli inviati dei grandi giornali. Come se avessero scoperto, all’improvviso, che esistono i locali, le sostanze stupefacenti. I giovani. Il loro crescere in una strana società liquida. Nei giorni scorsi, sul tema, sulla facilità di procurarsi sostanze stupefacenti, è tornato un servizio de ‘Le Iene’. Girato, proprio nel celebre locale riccionese, la sera prima della scomparsa del giovane .

Non so se la chiusura del Cocoricò per quattro mesi possa avere contribuito, in qualche modo, alla lotta contro l’uso di droghe sintetiche. O la ricerca smodata di alcool che d’abitudine l’accompagna. Di certo la Piramide spenta, a quel pezzo di Riccione che le si affaccia e che la contorna, ha regalato uno sprazzo di improvvisa quiete. Senza quella giovane ‘transumanza’. Colorata, confusa. Irriverente. Come d’uso talvolta a quell’età. ‘Transumanza’, giù dalla collina del ‘Cocco’ o, in estate, su dalla spiaggia dei locali che spesso, la domenica mattina, incrocio – diretto al lavoro – sul treno per Bologna. Semi-addormentata. Stravaccata sui sedili. A risalire la Via Emilia su su fino a Bologna o Modena, Parma e Piacenza. Oppure oltre che il ‘Cocco’, a quanto pare, vale il viaggio. Un’enclave tutta uguale. Stessi occhiali scuri, stesso taglio di capelli, stesse scarpe e magliette. Stessa canottiera extra large, slabbrata sotto il cappello da baseball. A fare capolino, d’inverno, sotto il piumone. Ragazze e ragazzi uguali. Nei vestiti e nei modi. Come lo eravamo noi quarantenni a quell’età – solo con altri marchi, altri pantaloni, altre scarpe, altro taglio di capelli -: che stare fuori dal gruppo, ai margini, quando si è piccoli, bello non è e un po’ di paura la fa. Perché il popolo che risale la Via Emilia sulle rotaie di piccoli è pieno.

Faccine che nemmeno una sigaretta ai lati della bocca; una birra in mano o una ‘pasta’ nella tasca dei jeans, riescono a segnare di maturità. Li guardo, la domenica di buon’ora  – per me, che per loro è solo la continuazione di una notte infinita – e mi ritrovo a chiedermi se, tra qualche anno, quei visi non possano essere quelli dei miei figli. E spero di no. Perché in quelle faccine scorgo le stesse inquietudini, le stesse ansie, gli stessi timori che si vivevano da adolescenti ai miei tempi, nei ‘favolosi’ (ma davvero, poi?) Eighties. Con la differenza che non li si viveva a centinaia di chilometri da casa, in una discoteca mastodontica, convinti che lo sballo sia l’ovvietà. Soli. Che tanto il gruppo, spesso, non è che un guscio vuoto.

La Riccione e la Romagna della mia adolescenza erano di quel po’ più ‘casinare’, schizofreniche e invitanti di oggi. Di discoteche ce ne erano di più, molte di più. La droga era l’eroina – quella che trasformava giovani corpi in relitti – e i ragazzi e le ragazze saliti a San Patrignano per salvarsi, una marea. Se non tra le cerchia degli amici più stretti, volti del quartiere, dell’oratorio. Volti da vicino di casa, da ragazzo della porta accanto. Il parco – che per tanti aveva un senso solo per i canestri e l’irreale pretesa di emulare i giocatori della Nba – un supermercato all’aperto per ogni clientela. Eppure me la sono cavata. Forse perché i ‘miei’ con le loro debolezze – ché ‘imparati’ non si nasce – comunque, c’erano. Mi avevano trasmesso – come potevano – passioni e interessi. Ci avevano provato. E tanto è bastato. Quando arrivo a Bologna, la domenica mattina, guardo la ‘transumanza’ mezza sfatta sul treno. E mi chiedo: sarò all’altezza della bellezza che i figli si meritano? Poi incrocio un secondo le dita. E scendo.

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