Costume
Cronache dalla quarantena. Da instagram all’ukulele
Hanno citofonato e Penelope ha infilato al volo le Globe cingolate e in mezzo pigiama ha preso le scale in slalom speciale. Era il grande fratello Amazon. Un post-it sul frigorifero lo annunciava: 22 aprile-ukulele e lavazza. Una strana coppia, rara e meticcia.
Da parecchio voleva uno strumento da portare con sè ovunque, tipo copertina di Linus, amore meno impegnativo del pianoforte, che non ti può seguire e ti aspetta sempre, nella sua quarantena senza possibilità di fase 2. E l’ukulele è il compagno ideale per un’anima migrante. Almamegretta.
E per il bisogno di canzone itinerante. Lapsusrima.
Scoperchiata la piccola bara di cartone ecco il giovane strumento azzurro smeraldo, leggero che hai paura di fargli male. L’ha infilato in prova nel suo consumato Northface, e sbucava giusto una mezza paletta con piroli. Ci sta! Un po’ come la sua testolina, a pochi mesi di vita, dal telaio a zaino dove la immergevo e me la scorazzavo fino a farle crollare il collo di lato, a godersi un sogno ontheroad.
Mia moglie era invece delusa, perché si aspettava arrivassero anche le capsule Lavazza ‘A modo mio’, lei che ha Espresso/Siga come scansione ritmica del suo smartworking, e invece deve usare la moka, che non è smart, ma sorniona.
Mi sono offerto di caricargliela io, e aspettando il bonario borbottio ho messo in cuffia il video dei Vigili del Fuoco inglesi, per spegnere almeno idealmente i focolai di balilla fuori tempo massimo. Mi scalda il cuore e diverte, Bella Ciao cantata con quell’accento che fa tanto Stanlio e Olio, e nello stesso deride quella brutta gente lì, che quando si avvicina il 25 aprile si agita, e ci prova. Chiusa parentesi infame.
Per più di due d’ore ho visto Penelope camminare per la casa con in grembo il suo cucciolo di legno fragile, e il felpone a cappuccio sollevato, perché aprile è bastardo, la temperatura danza, e in casa si crea l’effetto cantina. Le dita grattuggiavano le quattro corde di nylon da bucato, ventilando un suono mandolino western, e la sua voce si armonizzana timidamente sulle note di Creep. ‘But I’m a creeeeep/ I’m a weiiirdo… La preghiera dei Radiohead è il primo pezzo che ha imparato. Per noi era La canzone del sole. Il paragoni tra i due brani è impietoso, come lo è tra il loro infinito disponibile e il nostro racimolato del tempo, ma il sentimento delle due canzoni è condiviso, ‘Io non conosco/ quel sorriso sicuro che hai/ …mi fai paura oramai’, e ‘non riuscivo a guardarti negli occhi/ sei proprio come un angelo/ la tua pelle mi fa piangere’ sono didascalie degli stessi umori: sempre d’amore inseguito si tratta.
Sarà stato il suono dell’ukulele, il grigio delle nuvole o la discesa della temperatura, fatto sta che la sera a Penelope è venuta voglia di Polenta. Quella che ‘prima t’abbotta e pò t’allenta’: prima ti fa sentire la pancia gonfia e poi ti fa sentire leggero. Sequenza da pallone aerostatico.
Per lei è un piatto goloso, quello monotono e obbligato dei contadini. Ed evocando il mondo contadino abbiamo pure, anche se involontariamente, onorato la Giornata della Terra.
Salsiccia e zola ad accompagnarla: votata all’unanimità, Brigitta compresa, che non l’ha mai voluta assaggiare, ma che in questa quarantena sta aprendo orizzonti di gusto, facendo cadere avversioni e pregiudizi. La parmigiana ha fatto da apripista. Mica cazzi.
Non immaginate però pentolone di rame e braccio metallico che gira come il bue negli antichi frantoi, qui si va di rapida Valsugana, un quart d’ura con cucchiaio di legno.
In padella intanto va la salsiccia presa a forchettate, coperta di vino bianco, fiamma viva che stringe, spirita, e alza l’alone schiumoso che a fuoco spento poi si adagia in sughetto, pronto a dissetare la farina di mais.
Lo zola è lo zola. Il re maculato.
Il tutto onorato da una boccia di Aglianico. Vino da primavera inoltrata. Che ha un sottofondo brioso, ma intenzioni serie. Perfetto aspirante sposo.
Mentre ci avventiamo sulla torta gialla e semovente nel centro della tavola, Penelope fa le sue riflessioni. Che diventano rivelazioni.
– Ho deciso di togliermi da Instagram. Mi fa perdere troppo tempo.
Lo sguardo incredulo che scambio con mia moglie segue il diametro della tavola rotonda. La prima a commentare è la Brigi.
– Tanto tra qualche settimana al massimo ci ritorni…. E poi basterebbe non stare lì tutto il giorno come fai tu!
Penelope scuote la testa: è proprio quello l’insormontabile!
Un social che brucia tutto in 24ore è una giostra, sulla quale sali al volo e poi non riesci più a scendere. Giri, il paesaggio è frenetico, ricco, ma sfocato. Un continuo spiluccare che tiene attive le papille, agili le mandibole, ma non placa mai la fame.
Vabbè, la metto giù così io, perché sono uno scriba, con ancora le stimmate dell’analogico, e quello che brucia senza lasciare traccia mi fa triste: mi manca il coraggio di accettare che sià così. Anch’io l’ho aperto un profilo Instagram, qualche mese fa, ma è lì, abbandonato, tipo culla con neonato davanti alla chiesa. Resisto solo ai ritmi personali e blandi di facebook.
– Pà, veramente, non mi interessa niente del senso, del perchè eccetera… Ho bisogno di tempo per fare le mie cose. Niente di che.
Alla faccia del niente, e di che!
Ma dev’esserci qualcos’altro, qualcosa che non dice, che la spinge ad una scelta così dolorosa e controcorrente.
O forse no.
I figli nascono per stupirci.
– Bella cosa Pepe – dico subito, timbro d’approvazione. – E adesso hai anche l’ukulele, al quale dedicare il tempo che passavi su Instagram.
– Infatti papi.
– Ma l’hai già cancellato il profilo?
– No. Adesso vado.
Mastica l’ultimo cuore di polenta pasticciato nello zola e si alza, pronta all’impresa. Ma prima di andare in camera dove ha volutamente lasciato l’iPhone, allunga verso il divano dove è sdraiato l’ukulele.
Lo prende per il manico come una spada, e lo porta con sè.
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