Cooperazione
Lavorazione delle carni, dove le false cooperative sono la regola
Parte la prima delle cinque puntate dell’inchiesta “I nuovi schiavi del Nord Italia“, dedicata al comparto della lavorazione delle carni, che ha il suo perno in provincia di Modena. Il lavoro, vincitore della prima edizione del premio #diPubblicoDominio, è frutto di uno sforzo congiunto di Marco Amendola (interviste, riprese e composizione video), di Fabrizio Annovi (infografiche) e di Alberto Crepaldi (testi e interviste).
«Delle 249 cooperative ispezionate in Emilia-Romagna nel 2017, 188 sono fuori norma (75%), se si considerano quelle non associate alle maggiori realtà di categoria, il dato raggiunge addirittura l’85% (su 163 coop controllate, le irregolari sono 140) e tocca il 90% nei primi mesi di quest’anno». Così riportava, a luglio di quest’anno, la relazione dell’Ispettorato territoriale del lavoro di Bologna presentata in Commissione speciale di ricerca e studio sulle cooperative spurie o fittizie, istituita dal Consiglio della Regione Emilia-Romagna per cercare di fare luce sul fenomeno delle false coop.
Un fenomeno che esiste da almeno vent’anni, radicatosi, un po’ come la malavita organizzata, nell’indifferenza e sottovalutazione del problema da parte di Istituzioni, politica e mondo associativo. Certo fa specie che l’utilizzo di coop fittizie, che calpestano i valori fondanti della solidarietà abbia spopolato in particolare nell’Emilia rossa, patria ed emblema della cooperazione.
Il settore carni, balzato negli ultimi anni agli onori delle cronache per casi eclatanti di false cooperative utilizzate da industrie per tagliare costo del lavoro, regole e tutele, è solo la punta dell’iceberg di un mercato esteso a tanti settori. Dietro il quale si nasconde spesso anche malaffare e storie di sfruttamento che rasentano la schiavitù.
Umberto Franciosi, sindacalista modenese, segretario regionale della Flai-Cgil, da anni in trincea, parla senza mezzi termini di «caporalato, fatto di ricatti, intimidazioni, costrizioni […] un caporalato “evoluto”, dove il reclutamento avviene via sms e chat».
Quantificare il peso della finta cooperazione è impossibile. Solo per il comparto di lavorazione delle carni, che ha il suo baricentro in provincia di Modena, e che vale circa 3 miliardi di euro di fatturato, si stima che il 30% dei 5mila occupati siano soci di false cooperative. Un sistema, quello delle coop spurie, che abbatte i costi produttivi dell’azienda appaltatrice e che sottrae da anni all’Erario miliardi di IVA, contributi e tasse non pagate. A luglio, un’inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza di Rho (Milano) sulla filiera della macellazione delle carni, che ha lambito la produzione del prosciutto di Parma, ha fatto emergere l’esistenza di un consorzio di società, accusato di aver frodato il fisco per 300 milioni di euro. Un bottino di cui lo Stato non riuscirà mai a entrare in possesso. Perché i colletti bianchi – commercialisti, notai, consulenti del lavoro, bancari – che costruiscono la cornice legale e giuridica delle finte coop, danno vita, nella maggior parte dei casi, a scatole vuote. Come ci spiega Franciosi, «queste coop non hanno patrimonio e quindi risulta impossibile recuperare gli illeciti oltre all’evasione contributiva e fiscale prodotti». Ma c’è un ulteriore aspetto paradossale: l’azienda appaltatrice, oltre ad avere il vantaggio di tagliare drasticamente il costo del lavoro, scarica l’IVA su fatture che la coop spuria emette e che, come più volte è stato accertato dagli uomini della Guardia di Finanza, sono fittizie o gonfiate. Con l’aggravante che la falsa cooperativa, che dovrebbe versare l’IVA allo Stato, dopo uno o due anni chiude senza versarla. Un doppio inganno, insomma. E un doppio danno per le casse pubbliche.
A incentivare il ricorso a coop false, c’è un impianto legislativo favorevole, oltre ad un sistema sanzionatorio che Franciosi definisce «semplicemente ridicolo»: la legge Biagi ha depenalizzato il reato di intermediazione illecita di manodopera, il Jobs act ha eliminato il reato penale per la somministrazione irregolare di manodopera ed ora ce la si può cavare, dopo i consueti “patteggiamenti”, con un massimo di 16.667 euro: una vera manna dal cielo per chi vuole delinquere. «Senza considerare», puntualizza il dirigente della Flai Cgil, «che la legge 142/2001 – quella che la rivisto la legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore – prevede espressamente la possibilità di deregolamentare i contratti nazionali, andando anche sotto i minimi contrattuali laddove si dimostri lo stato di crisi».
Il risultato di un quadro normativo così “generoso” è che le coop spurie hanno letteralmente contaminato il settore della lavorazione delle carni. Emblematico il caso della Castelfrigo, azienda di medie dimensioni leader nella trasformazione delle carni suine con sede Castelnuovo Rangone (Modena), cittadina perno del “distretto delle carni”. Castelfrigo, un bel giorno, assegna in appalto parte della lavorazione carni al Consorzio Job Service Consorzio, che a sua volta subappalta a Cooperative Ilia d.a. e Work Service. In tutto sono 127 i lavoratori coinvolti, tutti stranieri, provenienti da Albania, Ghana, Costa d’Avorio e Cina. Il loro costo medio orario varia tra 13,5 e 15,5 euro, il 50% in meno della paga oraria degli addetti di Castelfrigo (27 euro all’ora). I finti soci lavorano 12-14 ore al giorno e, come appureranno gli uffici legali dei sindacati, parte della retribuzione è composta da rimborsi e trasferte, utili ad eludere l’imponibile Inps e Irpef. In autunno dello scorso anno scoppia il caso, denunce dello sfruttamento arrivano anche in Procura ed a questo punto le due coop avviano la procedura di licenziamento collettivo. Mesi di mobilitazione evitano il peggio ed una parte dei 127 viene riassorbita. Ma la storia di Castelfrigo si ripete da anni: basta consultare l’Albo delle società cooperative del Ministero dello Sviluppo Economico per capire come ogni anno aprano e chiudano centinaia di cooperative che di mutualistico non hanno nulla e sono solo lo strumento per distorcere i meccanismi di concorrenza leale tra le imprese e calpestare diritti dei lavoratori.
Il settore carni è certo quello più inquinato, ma la moda degli appalti a coop ha preso il largo anche in altri comparti. Basti pensare al caso di Italpizza, colosso delle pizze surgelate che vola verso quota 145 milioni di euro di fatturato: su circa 700 lavoratori impiegati, addirittura circa 600 sono soci cooperatori, equamente suddivisi tra la cooperativa Evologica e la cooperativa Logica.mente, chiusa a dicembre dello scorso anno ed incorporata nella Cooperativa Facchini Mercato Ortofrutticolo. Il problema, poi, è che tutte e due queste cooperative sono multiservizi, che dunque con il settore alimentare nulla hanno a che fare. Anche qui, come ci conferma Franciosi, il divario in termini di tutele e paga oraria tra gli addetti diretti ed i “soci” delle cooperative è enorme: 13 euro l’ora lordi (contro i 30), lavoro anche nei weekend con punte di 14 ore al giorno di lavoro. Sembra incredibile che, nella “culla” delle lotte per la Costituzione repubblicana e per i diritti dei lavoratori, tutto ciò sia tollerato. «A parole sono tutti contro», sottolinea amaro Franciosi, «ma non c’è sufficiente coraggio per combattere senza se e senza ma un sistema che ha annientato decenni di conquiste».
@albcrepaldi
@amendolamarco
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