Coop, a chi infangava la parola “Concordia”
Nell’aprile del 2015, nel pieno della turbolenza che investiva alcune imprese appartenenti al mondo cooperativo, pubblicavo questo articolo sugli StatiGenerali. Pochi giorni fa, in occasione della Biennale dell’Economia cooperativa, ospite di Legacoop, il Presidente emerito Giorgio Napolitano, ha ritenuto di formulare una esplicita critica per i “ritardi” con cui allora si era affrontata l’”emergenza legalità”. Oggi, ad una certa distanza di tempo, è chiaro che la scelta di perseguire i colpevoli e non le imprese allora ritenute colpevoli (danneggiando quindi tutti i soci presenti e passati), può dirsi saggia. Quelle imprese, alcune di lunga tradizione, sono state riportate – sane – nel mercato, recuperandone la legalità e, pure, la reputazione.
Agire troppo in fretta, sulla vibrante onda emotiva dell’opinione pubblica, forse non avrebbe permesso di affrontare con lucidità i problemi aperti; non avrebbe permesso, forse, di formulare “giusti processi”.
La storia di Legacoop è certamente stata anche segnata da contraddizioni e vicende come queste. È la lunga prima parte dell’articolo, comunque, che rappresenta ancora oggi la fisiologia di un sistema complesso, di una comunità di persone e di intenti.
Ormai diversi anni fa si teneva un Congresso della Lega delle cooperative in un centro congressi all’Eur. Forse non tutti sanno come si svolge un Congresso, non è obbligatorio esserci stati; è uno degli avvenimenti oggi definiti “riti del passato”; alcune centinaia di delegati, da tutte le regioni, le categorie, le imprese, assisi in una grande sala tipo palazzetto, la relazione introduttiva del presidente dell’organizzazione (più è lunga più sei il presidente), e poi il dibattito, ossia interventi dei delegati a discendere. A discendere significa che c’è una specie di ordine non scritto ma implicitamente gerarchico, per cui prima intervengono i più influenti, si posizionano, indirizzano, eventualmente minacciano e blandiscono, e poi piano piano, relazione dopo relazione diminuisce l’importanza del relatore, anche se non il senso e il valore degli interventi. Sembra una cosa inutile, ma è utile, è la democrazia e il suo funzionamento, è così che le grandi organizzazioni, quando funzionano, mediano le loro idee, spinte, orientamenti, ed evolvono; ma transeat. Nella tarda mattinata del secondo giorno, ormai gli interventi sono agli sgoccioli, il fisiologico brusio della grande sala è ormai aperto vociare, manager si accrocchiano in capannelli, discutono, pacche sulle spalle raccontandosi la cena della sera prima, che è sempre un piacevole convivio tra persone che spesso non si sono viste da un congresso all’altro; ma, insomma, la concentrazione è decisamente bassa.
Al pulpito era salito questo giovanotto meno che quarantenne che, con forte accento meridionale e la prosopopea tipica del discorso pubblico al sud, trascinava un intervento che meno ascoltato non poteva essere. Per dire, lui si impegnava, ma proprio il clima era da ultima ora, l’ultimo giorno di scuola, in terza media.
La sua cooperativa, i suoi compagni, i loro valori, e così via. Cioè per carità, cose importanti, sia chiaro, ma immaginate che in quella sala c’era gente che di cooperative così, di compagni così, di valori tal dei tali, ne aveva sentiti parecchi, e di congressi così ne aveva seguiti dieci o dodici lungo carriere quarantennali. Io stesso, lo ammetto, sonnecchiavo e nel dormiveglia vagheggiavo articoli sulla cooperazione, analisi del momento, consumo e produzione lavoro, e tutto sfumava, sfumava sulla poltrona del centro congressi che mi cullava nel sonno preprandiale. Non ditelo a nessuno.
Il tale con accento siculo, cominciò a parlare di terre di mafia, confische, cose nobili, ma, insomma, cose note, sai quel vago sentore retorico. E poi iniziò a leggere un elenco. Io mi svegliai sull’elenco. Ad ogni punto dell’elenco, cominciato nella disattenzione totale della sala, il cazzeggio si abbassava di volume, poi ancora, poi ancora, poi silenzio. Silenzio totale, al sesto o settimo punto.
Era l’elenco degli atti di intimidazione che i soci della cooperativa avevano subito dalla mafia. Un elenco puntato o numerato in ordine crescente di sversi di letame davanti alla porta, alberi abbattuti, campi incendiati, una, due, tre auto bruciate, minacce ai genitori e ai figli, poi intimidazioni, poi aggressioni più serie, in paesi piccoli del sud, dove la gente per paura ti isolava e non ti rivolgeva più la parola anche se eri tu la vittima, dove la paura cresceva e volevi smettere ma se smettevi che cosa facevi, e nessuno ti aiutava, nemmeno le forze dell’ordine. Un elenco del genere che zittiva la sala, faceva risedere tutti, anche i capoccioni che erano intervenuti il giorno prima, e, giuro, ti faceva sentire in quella trappola di speranze Vs omertà che un milanese vede solo in certi film. Ma, soprattutto, quell’elenco ti umiliava, non so perché, ma ti umiliava, e ti sentivi una merda.
Alla fine dell’elenco, non dell’intervento, ci fu un periodo di silenzio e di disagio. Luciano Sita, l’inventore di Granarolo e Conad, uno dei migliori cooperatori della storia della cooperazione (nonchè mio eroe) gestiva in quel momento il tavolo della presidenza; si alzò, andò verso il pulpito, e abbracciò il cooperatore siciliano. Non lo abbracciava con un abbraccio da congresso, formale, lo abbracciava proprio come si abbracciano i bambini fra loro, con la testa un po’ appoggiata alla spalla: sinceramente.
Io guardavo fisso davanti a me perché ero emozionato e mi vergognavo che si potesse vedere, come quando al cinema ti senti stupido a frignare e cerchi di distrarti per mantenere un contegno. Ma, a fianco a me, un dirigente di lungo corso del settore costruzioni, di quelli col vestito su misura e la bmw parcheggiata fuori, quanto di più lontano vi fosse dalla piccola cooperativa sicula, si copriva gli occhi con la mano e piangeva; piangeva di brutto.
Quando ho avuto momenti di delusione e rabbia, anche forte, anche profonda, verso alcuni cooperatori o alcuni fatti organizzativi, ho sempre pensato a quel momento per calmarmi per pensare che quella per me è la “cooperazione”, come idea, come valore e storia, a prescindere dai cascami.
Stacco.
Le organizzazioni cooperative associano milioni di soci, centinaia di migliaia di lavoratori, migliaia di imprese. Queste ultime sono autonome, realtà singole, molte fra queste sono in concorrenza fra loro, pensare che siano un tutt’uno è errato; quando uno dice “le cooperative di Legacoop messe insieme fatturano tot”, dice una fesseria, è come se dicesse “le aziende di Confindustria messe insieme fatturano tot”, non ha senso, non sono un blocco unico; sarebbe come pensare che tutti i negozi associati a Confcommercio siano un negozio unico. Quando uno dice “come fa Legacoop a non sapere” dice una pirlata, come fa a sapere se per sapere gli inquirenti hanno dovuto intercettare e indagare con operazioni di polizia; pensate forse che un’associazione di rappresentanza abbia una polizia interna? Che intercetti gli associati? Quando uno dice “sciogliete quell’azienda, o espelletela, o bruciatela” dice una cavolata: se i dirigenti di un’impresa rubano, malversano, delinquono, perché devi punire i lavoratori e i soci di quell’azienda che non hanno colpe individuali e non meritano di pagare per colpe altrui.
Ma non è questo il punto, dato che tutto ciò è così semplice che chiunque non sia in malafede lo capisce. In questo articolo, il punto è un altro.
Se qualcuno ha condotto a fare affari con la criminalità organizzata un’impresa fondata centoventi anni fa tra operai che dovevano campare la vita sbadilando, scarriolando, picconando, deve pagare senza alcuna pietà. Se qualcuno ha portato la parola “Concordia” al tavolo con la mafia ha tradito non solo noi cittadini, non solo la legge, non solo i suoi soci: ha umiliato quella storia.
Non oso immaginare che cosa farebbero quegli operai, con i picconi in mano, ai traditori della loro fiducia, anzi, no, ai traditori della loro Fede.
Ecco, io non muoverei un dito per fargli cambiare idea.
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