Cooperazione
Teneggi: “Le cooperative di comunità, una storia che parla al futuro del mondo”
C’è un mondo che non si rassegna alla fine delle comunità. Un mondo che, anzi, combatte perchè attorno alle comunità resistenti si generino segni di rinascita capaci di correre lontano. È la storia delle “cooperative di comunità”, che iniziamo a conoscere facendocele raccontare da Giovanni Teneggi, responsabile per lo sviluppo delle cooperative di comunità di Confcooperative e direttore di Confcooperative Reggio Emilia e tra i pionieri della rinascita delle cooperative comunitarie. Inizia così il nostro viaggio in una realtà poco conosciuta, eppure simbolicamente e materialmente fondalmentale per pensare al futuro di un paese fondato su piccoli centri che hanno subito, lungo i decenni, un processo di abbandono e spopolamento. Quella della cooperazione di comunità è una risposta anche all’idea che questo destino sia ineluttabile.
Cosa sono le cooperative di comunità?
Sono anzitutto cooperative, quindi aggregazioni economiche e imprenditoriali tra persone fisiche e giuridiche, che insistono su territori fragili e impoveriti, e a rischio di vivibilità, a causa di una serie di fragilità socio-economiche. Questi soggetti, su questi territori, progettano azioni di ripristino della loro abitabilità, e le traducono ove possibile in sviluppo e opportunità di crescita.
Quando inizia la storia delle cooperative di comunità, e quando incrocia la cooperazione istituzionale?
La cooperazione istituzionale italiana è originariamente comunitaria. Infatti, la cooperazione delle origini era tutta, integralmente, “di luogo”. Ci sono esempi eclatanti ed emblematici, pensiamo alle cooperative idroelettriche delle valli dell’arco alpino. Ed era fondamentale ben oltre e al di là delle esigenze energetiche che pure erano e sono state fondamentali. Nel mio appennino reggiano la stessa cosa vale per i caseifici cooperativi. La cooperazione implicata ai luoghi dunque è davvero originaria ed è iscritta al cuore del codice cromosomico della cooperazione italiana. È vero però che questa storia è andata un po’ perduta nel secondo novecento, perché le cooperative hanno spinto molto sulla filiera produttiva e sulla competitività. Con l’avanzare dello stato e del mercato, la cooperazione ha un po’ ceduto a quei modelli. Una storia che non possiamo giudicare ma che dobbiamo considerare.
Quando ritorna a essere centrale questo modello cooperativo?
Abbiamo casi già negli anni ’80/’90 e alcune cooperative hanno mantenuto storicamente questo carattere, ma torna a essere fenomeno generale di innovazione negli ultimi vent’anni. La mia prima cooperativa di comunità, la prima che riconosco, è Monticchiello, in provincia di Siena, che era paese totalmente rurale e che dagli anni ’60 vedeva progressivamente schiacciato il reddito del bracciantato rurale e obbligava alla fuga. Il paese stava così morendo per spopolamento. In questo contesto nasce una cooperativa. In questo contesto nasce un movimento di resistenza degli abitanti, prima associativo poi cooperativo. Questa storia ci insegna il primo ingrediente: l’innesco culturale. La prima attività, infatti, è culturale: nel 1967 si costituisce il teatro povero di Monticchiello. In relazione a questo reinnesco, si riapre un dialogo sul futuro, e nel 1980 nasce la cooperativa di Comunità. Ci consegna questo elemento irrinunciabile. La parola e la conversazione sono la prima infrastruttura. Nel 1991 a Succiso, sull’Appennino Tosco-Emiliano riapre il bar, in un paese che dagli anni ‘50 ai ‘90 perde quasi mille abitanti. Quando riapre, quel luogo di aggregazione, risponde prima a una necessità sociale che ad una economica, sono le persone che devono avere un posto per per reincontrarsi e trasformare in valore e valori contemporanei i patrimonio e le tradizioni dismesse. Un’altra storia da raccontare, è nella Valle dei Cavalieri, e ci ha insegnato nuovamente cos’è un’impresa abitante. E’ la prima cooperativa di comunità che abbiamo scoperto e pubblicato, con una ricerca di Confcooperative Reggio Emilia nel 2005. Dal 1991 a oggi, quel che succede lì non è solo economico, è anche culturale, sociale, ambientale e biografico. C’è poi la prima cooperativa metropolitana, Gruppo Scuola, a Parma, dal 2004, anche lei trasformando un’associazione di quartiere. O I Briganti del Cerreto, prima cooperativa comunitaria di lavoro. E ancora La Paranza, nel quartiere Sanità, a Napoli, che possiamo considerare la prima opera di patrimonializzazione comunitaria, la gente del luogo che si riappropria collettivamente dei suoi patrimoni e del loro valore comune.
Quale futuro vede per le cooperative di Comunità? Qual è il modello da perseguire, e di quale sensibilità politica e istituzionale c’è bisogno?
Negli ultimi anni, anche grazie al lavoro di Confcooperative, è cresciuta e si è diffusa una sensibilità sempre più consapevole e competente. Dai parroci ai sindaci, alle Proloco, alle istituzioni locali e regionali, alle fondazioni. Il mondo accademico sta dedicando loro molta attenzione. La narrativa sulle cooperative di comunità, che resta anche una forma di letteratura civile e politica, è sempre più tecnica e di modello.
Occorre superarne la chiave di lettura eroica, residuale e uno spazio meramente antologico. Il rischio è questo. Il tema delle cooperative di comunità non riguarda il futuro delle cooperative o dei loro singoli territori, ma il futuro del mondo. Perchè è una delle fabbriche più interessanti del senso di stare insieme, in un tempo in cui i grandi flussi della globalizzazione digitale ed economica rischiano di farci perdere questo desiderio e questa capacità. Invece di riconoscere e abilitare, omologano e neutralizzano. Se è vero, come vediamo ovunque, che una prossimità abitabile (anche temporaneamente) è il grande bisogno di uomini e donne della nostra epoca e la solitudine la nostra più grande povertà, dobbiamo continuare in questo fare, crescerlo per il suo significato comune e storico, renderlo fruibile. C’entra con l’essere umani, urgenza di questo tempo. E’ la più profonda e decisiva mutualità cooperativa.
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