“Non è come a marzo”: tutti i costi (crescenti) del non decidere
Siamo di nuovo a marzo. Ce lo siamo detti in tutti i modi nelle settimane passate, che “non è come a marzo”, e forse proprio ripetendo questo refrain abbiamo creato le condizioni per ripiombarci dentro.
Certo, vi sono molte differenze rispetto alla primavera scorsa. Allora il contagio era localizzato prevalentemente, se non esclusivamente, nel Nord Italia, quando oggi invece è praticamente ovunque tranne forse (finora) che in Calabria. Questo aspetto è un’arma a doppio taglio: da una parte, a fronte di un numero nazionale di contagi registrati molto superiore ai livelli di allora, e di ricoveri (anche in terapia intensiva) simili, il sovraccarico degli ospedali stavolta non è concentrato in pochissime regioni ma è diffuso, concedendoci ancora qualche giorno di “fiato” rispetto a un’ipotesi di superamento delle soglie d’allarme relative alla capienza – che sono intrinsecamente locali.
Però, d’altra parte, ospedalizzazioni così numerose al Sud, ad esempio in Campania, sono un pericolo enorme per la tenuta del sistema sanitario in zone meno attrezzate della Lombardia. Inoltre, oggi abbiamo qualche posto letto in TI in più (circa 1.250 per l’esattezza per arrivare a un totale di quasi 6.500, comunque assai meno di quanti pianificati dal governo in previsione della seconda ondata).
Ecco che quindi, se a marzo con meno di mille ricoverati totali in terapia intensiva entravamo in lockdown generale, oggi, con già più di mille in terapia intensiva, ci stiamo dando un “buffer” maggiore, nella speranza che l’utilizzo obbligatorio delle mascherine, l’elevato numero di tamponi (tre, quattro, cinque o sei volte rispetto a marzo), le campagne di tracing, gli inviti alla responsabilità individuale (“evitate tutti gli spostamenti non necessari”) e, da domani, il nuovo dpcm che impone la chiusura di bar e ristoranti alle 18, possano rallentare l’avanzata del virus e piegare la curva. Una scommessa davvero ad alto rischio, perché frutto di scelte tardive e inadeguate.
I modelli predittivi della diffusione del contagio indicano ormai chiaramente una crescita esponenziale. Poiché siamo un Paese di sessanta milioni di matematici, alcuni, tra cui il professor Locatelli qualche giorno fa, avevano messo in dubbio la crescita esponenziale, ridimensionandola a lineare. Ammesso e non concesso che sia lineare, avremmo comunque ormai tre o quattro migliaia di contagi in più ogni giorno a parità di test effettuati: resta un trend ripidissimo, e assolutamente pericoloso poiché ai contagi di oggi corrispondono i decessi che avverranno tra due o tre settimane (per l’ovvio “ritardo” dovuto al corso della malattia). Se quindi guardiamo i ricoverati e i decessi di oggi, e ci sembrano tutto sommato “pochi”, dobbiamo anche ricordarci che sono i decessi conseguenti a infezioni di fine settembre/inizio ottobre, quando i contagi totali giornalieri registrati erano circa 2 o 3 mila, non 21 mila. Tra poche settimane, i decessi saranno diverse centinaia al giorno.
Questo trend fa parlare di lockdown: quello generale è un tabù per motivi economici; quelli locali sono necessari e a gran voce richiesti da molti, ma forse insufficienti poiché il virus è ormai ovunque e la capacità di contagio (il “famoso” numero Rt) è superiore a 1, con punte di 2,5 o 3, nella grandissima parte delle regioni e soprattutto nella grandi città metropolitane (Milano in testa). Così, alcune regioni hanno varato nei giorni scorsi i primi coprifuoco negli orari notturni, chi dalle 23, chi dalle 24, fino alle 5 del mattino. Anche qui, si è trattato della speranza che limitando la movida e le occasioni di assembramento notturno (dovute principalmente ai giovani) il virus possa rallentare la sua corsa; mentre intanto si discute pubblicamente se i mezzi pubblici siano sopra o sotto la soglia dell’80% della capienza, ignorando da una parte che mancano i controlli per fare rispettare questa capienza (sempre ammesso e non concesso che sia una soglia davvero di sicurezza), dall’altra che le situazioni di picco nelle ore di punta possono portare a oltre il 100% di capienza: più persone di quante entrerebbero in un vagone se il Covid non ci fosse mai stato. Poche cose servirebbero come lo smart- o home-working obbligatorio per tutte le mansioni che lo consentano, proprio per decongestionare i mezzi pubblici.
Speranza, speranza, speranza. Governo e regioni procedono a tentoni, rincorrendo la pandemia come avevano fatto a marzo, senza però l’attenuante dell’effetto sorpresa e anzi avendo l’aggravante di tutto ciò che non si è fatto nei mesi estivi. Un punto deve essere chiaro: nessun Paese al mondo, a parte la non-democratica Cina, appare capace di prevenire/contenere questa seconda ondata, che anzi sta colpendo l’Europa con una forza sconosciuta (in questo somigliando alla pandemia di Spagnola di un secolo fa, in cui la seconda ondata fu di gran lunga peggiore della prima).
Soltanto la Germania tra i Paesi occidentali, sia in primavera, che oggi, sembra in grado di gestirla in maniera soddisfacente, mantenendo contagi, ricoveri e decessi ben al di sotto della media continentale. Forse, invece di compiacerci dei complimenti pubblici della cancelliera Merkel su come siamo (eravamo) un modello (principalmente per l’utilizzo delle fondamentali mascherine), avremmo dovuto studiare a fondo il loro, di modello organizzativo/gestionale anti-Covid.
Ora, purtroppo, non è già più il tempo di guardare al passato. Avremmo forse potuto incrementare il numero di tamponi giornalieri a trecentomila o più, invece che a 150/180 come oggi, come suggerito da Crisanti. Avremmo potuto investire risorse nella medicina di territorio e in un tracciamento efficace – quando ancora i numeri erano relativamente bassi, mentre oggi il tracing è probabilmente saltato e si procede abbastanza random. Avremmo potuto e dovuto fare tante cose, ma non è già più il tempo di parlarne, perché dobbiamo pensare ai contagi di oggi che crescono a una velocità spaventosa e ai ricoveri e decessi che avverrano tra tre settimane. Sperando che flettano come conseguenza delle ultimissime misure varate dal governo.
Il nuovo dpcm segna certamente un cambio di passo. Fino a oggi, la domanda era “se” davvero volessimo contenere questo disastro sanitario, poiché domenica scorsa il governo sembrava più propendere per una via svedese inconfessabile e non confessata. Questo almeno traspariva dall’inerzia e dagli indugi con cui Conte era intervenuto in materia, preoccupato più dal tracollo dell’economia che si rispecchia nei sondaggi che dall’incedere della malattia. “Non è come a marzo”, sosteneva senza decidere e rimandando.
Ma salute ed economia non sono (mai state) in competizione tra loro. Il costo marginale degli interventi di contenimento (le “chiusure” in qualsiasi modo le si voglia chiamare) aumenta con un andamento simile per entrambe: ogni giorno perso o rimandato costerà sempre di più sia in termini di vite umane che di sacrifici economici, perché le chiusure dureranno di più e saranno più severe e impattanti sui consumi. Noi non siamo la Svezia, non perseguiamo (per fortuna) alcuna supposta immunità di gregge, anche il premier lo sa; e per questo è intervenuto oggi con il nuovo decreto, superando una contrapposizione solo apparente tra prevenzione sanitaria e tenuta economica del Paese.
Funzionerà? Abbiamo dieci, quattordici giorni al massimo per capirlo. Certo è che avevamo settimane per chiusure blande e mirate, mentre adesso dobbiamo rassegnarci a coprifuoco pesanti e a un semi-lockdown, possibile anticamera di un lockdown totale sempre scongiurato a parole, gravissimo per l’economia, ma extrema ratio contro numeri fuori controllo. Non è così che si fa.
Speranza tanta, calcoli e scienza pochi o assenti, nonostante i talk show che traboccano di esperti. Non è come a marzo, ma rischia di essere peggio, e oggi dobbiamo soltanto comportarci il più responsabilmente possibile e sperare, perché la speranza è ciò che rimane quando si preferisce la scaramanzia alla crudezza e verità dei numeri.
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