Ambiente
Perché il Green Deal funzioni dobbiamo sconfiggere sovrapesca e pesca illegale
Se esistessero i giochi olimpici della biodiversità, il Mediterraneo vincerebbe senz’altro una medaglia. È davvero un mare da record: vanta meno dello 0,8% della superficie oceanica della Terra, e ospita ben il 7% delle specie marine del mondo; si stima che più di un quarto degli organismi viventi sia endemico, cioè che si trovi solo nell’Adriatico, nel Tirreno, nell’Egeo e così via: dalla cosiddetta quercia marina (Fucus virsoides, alga tipica dell’antico Golfo di Venezia) all’aguglia imperiale (Tetrapturus belone, molto apprezzata per le sue carni simili a quelle del pesce spada), le specie caratteristiche del Mediterraneo sono così numerose che il mare nostrum è considerato un santuario di biodiversità.
E come ricordano gli esperti, un ambiente ricco di biodiversità è più forte di fronte alle sfide. Inclusa quella, davvero epocale, dei cambiamenti climatici, che sommata ad altri fenomeni, come l’inquinamento, il crescente interesse per le risorse sottomarine e l’invasione di specie aliene, metterà sempre più alla prova gli ecosistemi.
Ecco perché il Mediterraneo è fondamentale per il Green Deal europeo: realizzare la strategia di Bruxelles per la transizione verde dell’UE (e la neutralità climatica entro il 2050) è impensabile senza sforzi ingenti e concreti per salvaguardare gli ecosistemi e la biodiversità mediterranei, che oggi sono gravemente minacciati. In primis, dalla pesca. In uno studio dell’International Union for Conservation of Nature (IUCN), infatti, si legge che “la pesca diretta, colpendo il 33% delle specie native mediterranee, è di gran lunga la minaccia più comune” per le oltre 500 specie e sottospecie considerate dal rapporto.
Il problema è complesso. «Da una parte c’è l’overfishing, l’eccesso di pesca: si pesca troppo, sotto taglia riproduttiva, quindi oltre la capacità degli stock di rinnovarsi – spiega Roberto Danovaro, professore di biologia marina e presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli –. Si prelevano specie che crescono lentamente e sono all’apice della rete trofica. Per fare un parallelo con la fauna terrestre, è come se mangiassimo aquile, lupi e leoni. In questo modo si depauperano irrimediabilmente gli stock ittici».
Dall’altra, osserva Danovaro, «c’è la distruzione degli habitat operata dalla pesca a strascico e dalle turbosoffianti che rimuovono praterie sommerse, e arano i fondali uccidendo tutte le componenti che creano degli habitat ricchi di biodiversità necessarie a molte specie per riprodursi».
Secondo il già citato studio dell’IUCN il 18% delle specie mediterranee è minacciato anche dalla pesca accidentale (nota come bycatch), diventando una “vittima collaterale” della pesca. L’esempio più noto è quello delle tartarughe marine caretta caretta, che vengono catturate accidentalmente dalle reti a strascico. Come spiega Fausto Tinti, associato di zoologia presso l’Università di Bologna, che studia da anni la sostenibilità della pesca, «di tutto quello che una rete a strascico pesca viene tenuto solo il 30%, perché tutto il resto non è commercializzabile, perciò viene ributtato in mare morto, o quasi. Il tasso di bycatch nello strascico è altissimo. Questi sono dati incontrovertibili».
Che la situazione sia seria è evidente guardando ai dati della FAO, secondo i quali “il Mediterraneo si sta svuotando”, e il 75% delle specie commerciali nel Mediterraneo è sfruttato a livelli insostenibili: un miglioramento rispetto al 2012, quando la percentuale era addirittura l’88%, ma pur sempre un dato preoccupante. Del resto, nota ancora Danovaro, c’è anche il problema delle «reti perse sui fondali rocciosi, che continuano a uccidere per molti anni. Tutto questo pregiudica la salute degli ecosistemi marini dalla costa fino ad almeno 600 metri di profondità, e pregiudica la capacità di recupero delle popolazioni ittiche».
Non è dunque difficile capire perché il contrasto alla sovrapesca e ai metodi dannosi per i fondali marini sia fondamentale per il Green Deal europeo. Non a caso la Strategia Biodiversità 2030, uno dei suoi pilastri, per proteggere e ripristinare gli ecosistemi marini punta fra l’altro a “eliminare il bycatch, o almeno ridurlo a livelli non pericolosi, per proteggere i mammiferi marini, le tartarughe e gli uccelli, in particolare quelli minacciati di estinzione; e contrastare le pratiche che danneggiano i fondali marini”.
Naturalmente la pesca a strascico è tanto più dannosa quando praticata illegalmente in zone a essa precluse, ad esempio in acque poco profonde o addirittura in Zone di Tutela Biologica, Aree Marine Protette o Zone di Restrizione della Pesca. O sulle praterie di posidonia, una pianta acquatica endemica del Mediterraneo e preziosissima, sia perché sequestra CO2 e produce ossigeno, sia perché costituisce habitat ideali, ricchi di cibo e al riparo dai predatori, per innumerevoli organismi marini, che si alimentano e si riproducono lì. Non a caso queste praterie sono note anche come nursery, cioè aree in cui le forme giovanili di molti organismi marini (tra cui anche specie interessanti per la pesca) trascorrono le fasi iniziali della propria vita.
Ecco perché la pesca a strascico sulle praterie di posidonia è assolutamente proibita. Eppure c’è chi continua a violare la legge, causando danni giganteschi. In Toscana Marco Gennai è vicepresidente della onlus Salviamo le Secche di Vada, e osserva da anni le drammatiche conseguenze della pesca illegale alle Secche, che si trovano a circa quattro miglia dalla costa. «A forza di passarci sopra con lo strascico certe zone, che prima erano ricoperte da praterie di posidonia, sono diventate un paesaggio lunare» spiega Gennai, con un tono fra il rassegnato e il triste.
Sempre in Toscana il pescatore artigianale (e fondatore del museo subacqueo La Casa dei Pesci) Paolo Fanciulli denuncia da anni una situazione drammatica. Che danneggia pesantemente l’ambiente e gli stock ittici. «Nella zona del Golfo di Talamone dove ancora non ci sono i dissuasori contro lo strascico, fra Castiglione della Pescaia e Marina di Grosseto, la pesca a strascico illegale purtroppo continua – conferma a Gli Stati Generali. – Le barche spengono l’AIS [un sistema automatico di tracciamento] e pescano sottocosta».
Danovaro sottolinea che «il danno ambientale causato dalla pesca illegale è estremamente elevato. In Italia è possibile stimare una perdita di capitale naturale che può costare fino a undici miliardi di euro per essere recuperata. Solo restaurare la penisola salentina per rimediare ai danni fatti dai datterari [pescatori di frodo di datteri di mare] negli ultimi decenni costerebbe mezzo miliardo di euro».
Spesso sono proprio i piccoli pescatori come Fanciulli a denunciare, anche ai media, le infrazioni commesse da barche appartenenti alla cosiddetta pesca industriale, che comprende i pescherecci a strascico. Non solo nelle acque italiane ma di tutto il Mediterraneo (e di molte altre parti del mondo).
Questo perché l’eccesso di pesca, causato anche dalla pesca illegale, depaupera le risorse ittiche, e a pagarne le spese sono prima di tutto i piccoli pescatori, che si ritrovano con le reti sempre più vuote. A differenza delle barche per la pesca industriale, quelle dei pescatori artigianali non possono percorrere miglia e miglia alla ricerca dei banchi, né allontanarsi molto dalla costa. La legge prevede zone di pesca diverse per i pescherecci a strascico e le barche della pesca artigianale, e quando qualcuno viola le norme i piccoli pescatori se ne accorgono. Anche perché capita che si ritrovino con i loro attrezzi da pesca danneggiati o distrutti.
Non mancano gli screzi, che talvolta arrivano a essere veri e propri conflitti, con tanto di minacce e ritorsioni. Paolo Fanciulli, ad esempio, racconta di aver subito numerose intimidazioni e minacce per le sue denunce e iniziative contro la pesca a strascico illegale. «Il procuratore me l’ha detto, “t’è andata bene che non ti hanno ammazzato” – racconta – Secondo lui ciò che mi ha salvato è stata la visibilità sui media».
Anche Salvatore Fiorillo, presidente della cooperativa di pescatori artigianali Acquamarina, a Salerno, ha più volte segnalato che quattro o cinque pescherecci operano illegalmente con lo strascico sottocosta da quarant’anni ormai. Non senza conseguenze. «Anni fa tutta la cooperativa era molto attiva sulla denuncia della pesca illegale – dice a Gli Stati Generali. – Però col tempo la partecipazione si è affievolita perché le cose non sono cambiate. Poi sa, a me hanno bruciato la macchina due volte, nel 2010 e nel 2012. Uno magari è disposto a correre dei rischi ma non è detto che gli altri riescano a sopportare la pressione. Alcuni, se gli affondano la barca o gliela bruciano, non hanno più la forza economica per rimettersi in piedi».
Fiorillo descrive una situazione che danneggia pesantemente gli habitat e gli ecosistemi, e gli operatori del settore che operano rispettando le norme. «Se guardiamo solo a Salerno, negli anni Settanta eravamo 700 pescatori, ora siamo 60, 70. E la maggior parte dei nostri figli non vuole continuare il mestiere come abbiamo fatto noi, ereditando la barca dai nostri padri».
Sia chiaro, la pesca illegale ha molte forme, e purtroppo è ben lungi dall’essere un problema esclusivamente italiano. Non a caso Bruxelles ha creato nel 2005 la European Fisheries Control Agency (EFCA). L’EFCA ha come mission promuovere i più elevati standard comuni di controllo, indagine e sorveglianza nell’ambito della politica comune della pesca. Fonti dell’Agenzia spiegano a Gli Stati Generali che l’EFCA contribuisce «alla creazione di condizioni di equità per l’industria della pesca a livello europeo, in modo che gli obblighi europei siano rispettati da tutti e che tutti gli operatori del settore siano trattati allo stesso modo, ovunque essi operino. Inoltre contribuisce alla sostenibilità della pesca, migliorando il rispetto delle misure di conservazione e gestione esistenti a beneficio delle generazioni presenti e future».
C’è chi ritiene che non si faccia abbastanza per contrastare la pesca illegale nel Belpaese. Eppure, secondo un rapporto elaborato per il comitato per la pesca del Parlamento Europeo, Spagna e Italia insieme rappresentano l’80% delle infrazioni rilevate in 17 dei 22 paesi rivieraschi dell’UE.
«Il sistema dei controlli coordinato dal Centro controllo nazionale pesca è molto efficiente, funzionale e capillare. Questo permette, in Italia, di individuare ed accertare un numero elevato e diversificato di violazioni» ha spiegato a Gli Stati Generali Giuseppe Spera, che al momento dell’intervista rivestiva il ruolo di Capo sezione del Centro di controllo nazionale pesca (CCNP) della Guardia Costiera. Ancora, la normativa italiana sulla pesca illegale prevede un sistema di assegnazione dei punti che, raggiunto un numero massimo di infrazioni, comporta un provvedimento di sospensione della licenza di pesca al peschereccio. «Il sistema dell’assegnazione dei punti ha una deterrenza molto importante, perché incide sul valore economico del peschereccio» afferma Spera. «Un peschereccio ha valore se ha una licenza di pesca: se qualcuno vuole acquistare un peschereccio alla cui licenza sono stati assegnati dei punti, probabilmente cercherà di abbassare parecchio il prezzo rispetto al valore di mercato, proprio perché insieme alla barca si acquistano anche i punti assegnati alla sua licenza».
Naturalmente anche i consumatori possono fare qualcosa. Come nota Tinti, «la straordinaria biodiversità del Mediterraneo è al contempo un dono e una condanna per questo mare. Perché la sua ricchezza di biodiversità rappresenta anche una ricchezza dal punto di vista economico, le specie di interesse commerciale sono molte. L’Atlantico, pur essendo un oceano e probabilmente con riserve di stock assai maggiori, ha poche specie di interesse commerciale: il merluzzo, l’aringa e poco altro». Anche l’Atlantico vanta una ricca biodiversità naturalmente, ma la differenza sul numero di specie interessanti per la vendita la fanno le abitudini alimentari.
Mentre in Nordeuropa le ricette tradizionali si basano su pochi ingredienti (ad esempio l’halibut, il merluzzo e le cozze), e i consumatori sono molto poco esigenti sul pesce fresco, gli abitanti dei paesi mediterranei sono abituati a piatti incredibilmente ricchi di specie diverse e sono estimatori fin troppo entusiasti di piatti come la grigliata mista, la frittura di paranza, il caciucco alla livornese, la paella de marisco, o il cous cous di pesce.
Prelibatezze che certificano la ricchezza culturale mediterranea, che comprende anche la gastronomia. Ma il mare nostrum non può reggere il consumo di queste delizie da parte di milioni di persone ogni giorno, né la pretesa di trovare solo pesce fresco al ristorante. A tavola ci vuole un po’ più di consapevolezza, e magari anche un pizzico di spirito di sacrificio: per salvare il Mediterraneo vale la pena di rinunciare a una frittura di paranza.
Immagine in copertina di David Mark, da Pixabay
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