Clima
La moda fighetta del sushi sta distruggendo gli oceani
Meno di 13 euro, consegna inclusa. È quanto costa in una grande città del Nord Italia una porzione da quattordici pezzi di sushi misto da asporto. Al tavolo sei pezzi di norimaki a base di tonno e salmone fanno 5 euro, mentre una “barca” con 21 pezzi di sashimi, nigiri, uramaki e hosomaki ne vale 18. Per essere così in voga, il sushi non è costoso per le tasche del consumatore.
In realtà il vero prezzo del sushi è molto più alto. Solo che a pagarlo non è chi lo compra, ma piuttosto mari e oceani, che si stanno spopolando di pesce, e l’ambiente in generale. Le emissioni di CO2 dell’industria peschiera mondiale sono aumentate del 28% tra il 1990 e il 2011 (fonte Nature). E le popolazioni costiere di molti paesi in via di sviluppo, che a causa della pesca indiscriminata hanno visto crollare una delle basi della loro alimentazione.
Per Stefano Longo, professore di sociologia alla North Carolina State University, specializzato nelle interazioni fra sistemi sociali e sistemi ecologici, non c’è dubbio che alla base del successo planetario del sushi ci sia un ottimo marketing: «Il sushi è diventato anche uno status symbol, è stato presentato come un cibo cool, che ben si attaglia alle persone di classe, intelligenti e cosmopolite. Ma i suoi benefici nutrizionali non sono per niente in linea con il suo impatto ecologico».
Quello del sushi è un autentico boom. Secondo un rapporto della Federazione italiana pubblici esercizi, l’anno scorso il sushi è stato fra i cibi più ordinati online dagli italiani, insieme con la poke bowl (insalata di tradizione hawaiana a base di pesce crudo), ai ravioli asiatici e ai più consueti hamburger con patatine e pizza.
Verso la fine degli anni ’90 il sushi ha oltrepassato i confini della madrepatria, il Giappone, diventando sempre più popolare in tutto il mondo. Tanto che, secondo una relazione tecnica pubblicata dalla FAO nel 2010, il consumo annuale di tonno sotto forma di sashimi (che consiste di semplice pesce crudo, senza il riso e le alghe utilizzate nel sushi) potrebbe attestarsi fra le 7mila e le 10mila tonnellate in Europa, e intorno alle 20mila negli Stati Uniti.
Se nella cucina italiana il grano è alla base di moltissime prelibatezze, il tonno, e soprattutto il tonno rosso, rappresenta l’ingrediente fondamentale per il sushi, il sashimi e altri manicaretti a base di pesce crudo, e il suo valore economico è altissimo. La pesca delle diverse specie di tonno, da sola, vale almeno 40 miliardi di dollari l’anno. Nel 2013 il caso del tonno rosso da 222 chili comprato per oltre 1,7 milioni di dollari da un’azienda nipponica a un’asta fece il giro del mondo. Ma se il tonno rosso è così prezioso è anche perché sta diventando sempre più difficile da trovare in natura. Il WWF e l’International Union for Conservation of Nature lo classificano come specie in pericolo di estinzione.
Nel 2012 la FAO stimava che il 30% degli stock ittici mondiali (ossia il pesce presente nei mari e negli oceani del pianeta) fosse sovra-sfruttato. E secondo il Living Blue Planet Report 2015 in poco più di quarant’anni le popolazioni di vertebrati marini si sono praticamente dimezzate.
Nel 2015 Dirk Zeller, professore di conservazione marina alla University of Western Australia, ha co-firmato un articolo scientifico pubblicato dalla rivista Nature. In quello studio Zeller e il suo collega Daniel Pauly hanno dimostrato che le quantità di pescato a livello mondiale sono ben maggiori di quelle stimate in base ai dati comunicati dai vari paesi alla FAO. Secondo i loro calcoli, il picco toccato nel 1996 dal pescato mondiale è stato, in realtà, di 130 milioni di tonnellate contro 86 milioni stimate dalla FAO. «Le statistiche ufficiali generalmente non tengono conto del pescato che viene ributtato morto in mare», spiega Zeller.
D’altra parte, secondo i dati ricostruiti da Zeller e Pauly, anche il calo globale delle catture registrato dopo il 1996 è stato maggiore rispetto alla stima della FAO. Tre volte maggiore, per la precisione. Secondo Zeller non ci sono dubbi sulla ragione di questa diminuzione. «È semplicemente l’eccesso di pesca. Ci sono troppe navi che inseguono risorse ittiche agli sgoccioli. Le flotte globali di pescherecci sono fra 2 e 4 volte più grandi di quanto sarebbe necessario per catturare il massimo di pescato sostenibile».
L’eccesso di pesca non si deve solo alla crescente diffusione di sushi, sashimi e altri piatti a base di pesce crudo. Secondo i dati FAO, infatti, il consumo pro capite di pesce è cominciato ad aumentare a livello globale già negli anni ’60, passando dai 9 chili del 1961 agli oltre 20 chili del 2015. Fra le cause dell’aumento la FAO indica il miglioramento dei canali di distribuzione e la crescente richiesta, legata all’incremento della popolazione globale, al miglioramento dei redditi e all’urbanizzazione.
«Oggi la pesca mondiale non è sostenibile», afferma Antonio Pusceddu, ecologo marino e professore presso l’Università di Cagliari. «I livelli di prelievo sono eccessivi e i metodi di pesca sono altamente distruttivi e compromettono l’integrità degli ecosistemi. Ci sono marinerie che usano navi lunghe fino a 300 metri che pescano a strascico fino agli 800 metri di profondità e anche di più. Il pesce ci arriva vivo e ne esce già in scatola».
Com’è noto, tecniche di pesca come quella a strascico sono molto dannose per l’ambiente, e contro di esse si battono diverse organizzazioni ambientaliste. Fra queste c’è anche la Bloom Association, fondata a Parigi nel 2005. «Ci focalizziamo sull’impatto della pesca – spiega il direttore scientifico Frédéric Le Manach –. A questo si devono due nostre campagne che, dopo anni di lavoro, hanno avuto successo: una contro la pesca a strascico in profondità e l’altra contro la pesca elettrica».
L’acquacoltura non è sempre una valida alternativa. Zeller la divide in due tipi: il primo tipo è quello in cui si allevano pesci e molluschi che non richiedono nutrimento artificiale, come ostriche, cozze, carpe e rane pescatrici. «Questo tipo di acquacoltura va bene perché aggiunge nuova biomassa al sistema alimentare».
L’altro tipo, invece, è quello legato all’allevamento del salmone o del tonno. «Quella è un’operazione industriale simile all’allevamento dei maiali – sottolinea Zeller –, con un massiccio apporto artificiale di cibo, oltre ad antibiotici e altro. E tale apporto alimentare consiste in larga misura di pesce catturato in mare e trasformato in farina».
Per nutrire gli allevamenti di salmoni e tonni, di pescato ce ne vuole parecchio. «Per avere un chilo di tonno ne servono almeno quindici di sardine o di acciughe – nota Simone Libralato, ricercatore dell’Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale (OGS) –. Per quanto riguarda il pesce, purtroppo, i prodotti più ricercati dalle persone sono anche i più impattanti».
Ancora, dato che la maggior parte della pesca d’altura cerca specie uguali o simili a quelle pescate dalle attività più piccole, si crea spesso una sovrapposizione fra la pesca industriale e quella su piccola scala. «Ecco perché così tanti piccoli pescatori in Africa occidentale e altrove hanno adesso grosse difficoltà a sbarcare il lunario – nota Zeller –, perché gran parte del loro pesce viene pescato da flotte industriali, soprattutto straniere».
La situazione è aggravata da altri fattori, fra cui l’inquinamento, la crescente antropizzazione delle coste e il cambiamento climatico. Secondo alcune stime, ad esempio, a questo ritmo nel 2050 gli oceani conterranno più plastica che pesci. Ma per Le Manach, il fattore più pressante è il cambiamento climatico: «I suoi effetti sugli oceani sono una questione tanto complessa quanto fondamentale». Da una parte l’aumento della temperatura degli oceani ha enormi conseguenze sulla biodiversità marina e sul clima della terra, dall’altra ha un effetto acidificante che si ripercuote sulla vita marina, ad esempio sui coralli.
Effetti ampiamente osservati dagli esperti anche nel Mediterraneo. «Non tutte le specie sono in grado di adattarsi – spiega Libralato –. Nell’Atlantico specie simili stanno migrando più a nord, nel Mediterraneo rimangono incastrate nelle parti più settentrionali, come l’Adriatico». Viceversa, stanno comparendo specie tipiche di acque più calde. «Prendiamo la Mnemiopsis leidyi, detta noce di mare: questa specie non esisteva nel Mediterraneo, è originaria del Nord America. Negli anni ’90 ha creato enormi problemi nel mar Nero, e da qualche anno è presente stabilmente nel Nord Adriatico. È priva di qualsiasi interesse commerciale, ma ci aspettiamo che possa avere impatti negativi notevoli su acciughe e sardine».
A causa del trasporto marittimo, dell’apertura del Canale di Suez e del riscaldamento delle acque, oggi il Mediterraneo ospita quasi 1000 specie non native, rileva Pusceddu. Alcune, come l’alga Caulerpa cylindracea, sono altamente invasive, altre – come il Lion fish e il pesce palla maculato – sono molto velenose.
Di fronte a problemi di tale portata, la consapevolezza individuale può sembrare la proverbiale goccia nell’oceano. Ma non è così, i modi per fare qualcosa esistono. «Per contribuire a rendere la pesca ecosostenibile dovremmo consumare pesce azzurro – segnala Pusceddu – che è più abbondante, meno inquinato, visto che sta alla base della catena alimentare, ed è comunque ricco di sostanze nutritive, gli omega 3 su tutte».
Per Libralato dovremmo anche cominciare a consumare pesce locale e seguendo la stagionalità, proprio come molti fanno quando acquistano frutta e verdura, «evitando quello importato o allevato, il cui costo ecologico può essere altissimo». Ne è convinto Le Manach: «Le nostre campagne ci hanno permesso di toccare con mano il potere delle persone. Senza cittadini preoccupati e sensibili a queste problematiche non avremmo ottenuto niente. Una persona da sola non può cambiare interi modelli di produzione e consumo, ma migliaia di persone insieme possono riuscirci».
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Foto Pixabay
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