Costume
Vite Agre, storie di iniziazioni
Quando facevi il militare… te li ricordi? Ti aspettavano allineandosi, in due file, lasciandoti correre nel mezzo. Ciascuno di loro ti assestava un calcio nel culo, era la naia, ridevano. Poi rieccoli, quando ti sei laureato, ti hanno infilato una maschera e le pinne, ti hanno ficcato delle mutande in testa, con le uova poi ti hanno centrato in tanti, sembravano contenti. E tu hai collaborato, è lo standard. Oggi, ancora, quando ti sei sposata, anzi il giorno prima, ti hanno vestito da scema, ti hanno addobbato con un cartello di cartone: “rasatemi la patata”, eccoti, sei qui, sono le 11 di mattina, ti immagino stasera…
A volte esagerano, vanno oltre, ma l’eccitazione aiuta a non porsi troppe domande. Il branco fa così. Perché si, certo, nessuno, da solo, farebbe così. La tipicità del branco è che invece in branco si fa così.
In fondo, pensaci, l’unica cosa che hanno in comune queste “iniziazioni”, a lungo covate nelle pieghe del civile, è farti capire quanto le divise, il mondo, il lavoro, i mariti… quanto tutto ciò ti umilierà. Non sono perciò riti allegri. Guardali negli occhi i membri del branco, non c’è allegria. Sono maschere tragiche, interpretano ricordi di gogna, hanno sguardi frustrati, tra l’allegro ed il sadico. Un istinto muove il gruppo intorno a te, intorno a questa tua, certo limitata ma precisa, volontaria umiliazione. Umiliarti… “è per ridere”. Solo questo, anche solo questo, basterebbe alla ragione per chiedersi in che modo si ride dell’umiliazione altrui. Ma, come accade in ogni danza macabra, la ragione in quei momenti si scosta. Il senso del rito è marchiarti, ma il senso dei riti non si chiede. Solo, di tanto in tanto, uno sguardo sembra interrogarsi, ma ecco che il bicchiere, pronto, lo affoga. Vite agre.
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