Cinema
Tu volevi dire che ore sono? O della leggerezza incerta dell’ordine del tempo
Liliana Cavani ha presentato a Venezia il suo lungometraggio più recente, “L’ordine del tempo”. Ha ricevuto il premio alla carriera, ma la presentazione del nuovo film dice che questa carriera potrebbe essere all’inizio, ché l’ordine del tempo non è la cronologia. Anche se per cronologia è la prima donna a ricevere questo premio e per la Storia qualcosa significa.
La cronologia che usiamo per prendere gli appuntamenti, per risolvere le gare di atletica, non coincide con il tempo.
Il film ha l’ambizione di raccontarci per due ore cosa sia il tempo, e il debito con lo scienziato che ha ispirato il racconto del film è dichiarato fin dal titolo. Carlo Rovelli che ha pubblicato con Adelphi il saggio omonimo è infatti un co-sceneggiatore.
E con questo film Liliana Cavani sembra volerci suggerire una via d’uscita dall’idea opprimente del tempo – kronos, il divoratore. Non opponendolo a kairos, l’istante opportuno, ma mettendolo sullo sfondo dell’eterna ripetizione (aion) e delle stagioni. E questa via d’uscita non risiede nel possedere qualcosa che ci porti più veloce, e nemmeno nel rallentare una corsa, ma nel comprendere la natura del tempo che regola il mondo.
Sembra di sentire Esiodo, e infatti il film si apre con tutti i sinonimi greci della parola tempo, che una mamma ripete come faceva già lei, con la figlia adolescente. Questo gesto della ripetizione e della differenza è la sostanza della memoria e della comprensione della propria posizione nella Storia.
Tutta la narrazione del film serve a portare sulla soglia dell’universale una scenetta del tutto familiare e confortevole, da letteratura alessandrina. Una riunione di amici di una vita nella casa al mare, il giorno del compleanno per i cinquanta anni della padrona di casa.
L’intimità è una forma di relazione, e quando siamo in intimità e fraternità con il mondo intero, è quando comprendiamo l’ordine del tempo. Non quando si spengono le candeline sulla torta o quando rimpiangiamo quello che non c’è.
Dunque il tempo deleuziano del penultimo coincide con quello che la fisica più recente ci dice del tempo.
Quindi la violenza, l’incomprensione, la rabbia sono una forma estrema di rinuncia alla vita nel e del tempo, che come presenze nel cosmo ci unisce in un solo destino. Dunque il destino è l’aperto.
Ci sono stati altri film che hanno usato lo stratagemma dell’apocalisse. Melancholia, che ne descrive gli aspetti angoscianti, Don’t look up, sul caos della spettacolarizzazione della scienza. Questo senza intertestualità, perché si potrebbe arrivare all’Apocalisse di Giovanni o alla cattedra episcopale della Chiesa di San Marco.
Nel film di Liliana Cavani non c’è nessuna angoscia e non compare il caos mediatico, ma appaiono i confini incerti delle figure dei personaggi, che non smettono mai del tutto il ruolo ma lo chiariscono a sè e agli altri. E invece della spettacolarizzazione della scienza compare un accompagnare alla conoscenza.
Questa idea cosmologica delle relazioni è l’opposto dell’atteggiamento horror dei film anglosassoni e del nord Europa.
Come se continuasse questa distinzione, apparsa già nella pittura del quattordicesimo secolo, fra la figurazione angosciante di Bosch delle vite dei Santi, e le rappresentazioni quasi contemporanee di Vivarini o Bellini, che liberano dall’assoluto dorato dell’icona le figure dei santi in un paesaggio realistico e familiare.
Che è anche l’inizio del pensiero scientifico della natura.
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