Venezia
Tradizioni inventate e anime svendute: il cuore antico della Venezia di Brugnaro
Ahimè, sembra proprio destino che io non riesca più a vedere a Venezia la Giuditta II di Klimt né il Rabbino di Vitebsk di Chagall. Come se non bastassero i frequenti e lunghi prestiti che privano la collezione di Ca’ Pesaro dei suoi pezzi più importanti (la Giuditta già adesso non è praticamente mai a Venezia), ci si è messo ora Luigi Brugnaro, che vorrebbe venderli per rimpinguare le casse ormai vuote del Comune. L’entusiasmo privo di progetto del Centrodestra cittadino si è subito scontrato con la durezza dei numeri: circa 70 milioni di deficit e più di 350 di debito sono naturalmente il pensiero più assillante per il nuovo Sindaco, che parla dei capolavori del Novecento come un nuovo padrone di casa parla del mobilio dell’inquilino precedente.
Si tratta di una logica discutibile ma non sorprendente, e di certo non nuova: durante i vent’anni di governo del Centrosinistra, a Venezia si sono svenduti o lasciati svendere interi pezzi di città. Numerosi palazzi storici di proprietà pubblica e gran parte delle isole-ospedale in disuso sono stati alienati a prezzi ridicoli e senza troppo clamore (se si esclude la protesta degli studenti per la vendita di gran parte delle sedi storiche dell’università Ca’ Foscari), per diventare infine hotel più o meno “esclusivi”, sorte ineluttabile di gran parte delle pietre di Venezia. Ciò che sorprende in questo caso è però la motivazione culturale della scelta.
Il Sindaco Brugnaro, il presenzialista televisivo e storico dell’arte Vittorio Sgarbi e persino un intoccabile gran sacerdote della Venezianità come Arrigo Cipriani – “Mr. Harry’s Bar” – considerano infatti Klimt estraneo al genius loci e alla storia della città. Se Brugnaro parla di «roba moderna», «Corpo estraneo» è esattamente l’espressione utilizzata da Sgarbi. Che un argomento di questo tipo sia utilizzato senza remore, dà la misura dello stato in cui ci troviamo e della distanza siderale – o meglio, secolare – tra l’idea di Venezia come quintessenza della città cosmopolita e la città attuale. Il punto è che, comprensibilmente, Klimt non trova posto nel parco a tema in cui Venezia si sta trasformando. Non fa parte degli oggetti di scena consentiti, per così dire.
Davvero Klimt non c’entra nulla con Venezia? Eppure i celebri sfondi in foglia d’oro del suo Goldene Periode furono ispirati dalla visione dei mosaici bizantini di S.Marco, mentre la Giuditta II fu presentata alla Biennale del 1910 per poi essere acquistata dal Comune, quando a Venezia non mancavano gli estimatori della «roba moderna» in arrivo da Vienna. Mi sento comunque di escludere che Brugnaro, dopo i «libri gender» e le fotografie delle navi da crociera, abbia intenzione di censurare anche le influenze austroungariche presenti nella cultura veneziana, a meno che l’intenzione (suicida) non sia quella di eliminare anche il sacro bibitone esportato in tutt’Italia e oltre, protagonista assoluto non solo degli aperitivi, ma dell’immaginario veneziano in sé: lo spritz!
Inoltre, portando tale logica alle sue estreme conseguenze, si arriverebbe al paradosso suggerito da Michele Fusco qualche giorno fa su Twitter: il sindaco medesimo, in quanto nativo di Mirano, sarebbe di fatto un corpo estraneo alla città d’acqua. Perché se il chioggiotto Casson, oggetto delle mordaci ironie dei veneziani (compresi quei dirigenti PD che durante la campagna elettorale si riferivano a lui come al branzin – il branzino, o spigola che dir si voglia), rimane pur sempre uomo di laguna, Brugnaro è irrimediabilmente uomo di terraferma. La sua parlata lo tradisce. Gliel’ha ricordato Tommaso Cacciari, leader dei Centri Sociali del Nordest e nipote del più noto Massimo, in occasione di un incontro pubblico col movimento No Grandi Navi: a Venezia per dire “(tu) sei” si dice “ti xe”, non “te si”. “Te si” è il marchio del campagnolo.
Se persino i centri sociali da diversi anni tentano in qualche modo di competere col discorso localista-venetista, si può immaginare quanto a Venezia sia forte l’uso politico della Tradizione. L’unicità di Venezia si regge del resto su di un delicato equilibrio tra natura e cultura, in cui la seconda non può prevalere sulla prima, perché in definitiva Venezia rimane un’isola, un luogo che un’alta marea può ancora sommergere. Un veneziano d’acqua rimane quindi un isolano, attaccato, almeno a parole, alle tradizioni lagunari, dalla voga alla pesca all’arte – ormai declinante – degli squeraroli e delle imbarcazioni tradizionali. Simbolo di tutto ciò, più ancora della gondola è forse il Bucintoro, galea sulla quale i dogi si imbarcavano per celebrare la cerimonia del cosiddetto Sposalizio del mare, rito di unione di Venezia col suo elemento originario.
Un piccolo aneddoto che riguarda il Bucintoro può servire ad illuminare la storia presente della città. Nel 2014, prima dell’arresto dell’ex sindaco Orsoni per le note vicende di corruzione relative al MOSE (il quale, per inciso, rappresenta un tentativo di rimediare alla crisi di quel “matrimonio acquatico”), in città è sorto un comitato avente come scopo proprio la ricostruzione del Bucintoro. Il primo importantissimo contributo al progetto è arrivato dalla Francia: il legno di seicento querce dei boschi d’Aquitania è stato donato per la costruzione del vascello. Un gesto generoso, un segno di amicizia tra regioni d’Europa che ogni veneziano non può che accogliere con gratitudine.
Eppure, alla cerimonia di posa in opera, a giugno dell’anno scorso, uno dei principali promotori dell’iniziativa, il leghista Giovanni Giusto, Presidente del Coordinamento delle Associazioni Remiere, ha trovato qualcosa da ridire. La bandiera francese accanto a quella di S.Marco a detta di Giusto rappresenta un affronto, in quanto bandiera «napoleonica», cioè vessillo del nemico numero uno della Repubblica Serenissima (!). Giusto, per la cronaca, è oggi consigliere di maggioranza in Comune e Brugnaro gli ha assegnato appunto la «delega alla Tradizione» della sua Giunta. Questo è in buona sostanza lo zoccolo duro del leghismo in città, interprete della sua anima più reazionaria, ma finora minoritaria.
Per capire la vittoria di Brugnaro occorre però ricordare come Venezia non sia soltanto città d’acqua ma ormai soprattutto città di terra. La Venezia di terraferma, costituita dagli agglomerati di Mestre e Marghera, ospita ormai i tre quarti dell’intera popolazione del Comune. Questa città anfibia non ha più un vero centro e sembra tenuta assieme unicamente dalla sottile lingua d’asfalto e binari del Ponte della Libertà, attraversato ogni giorno da 35 mila lavoratori pendolari che si dirigono verso i bar, gli hotel e i negozi del centro storico, sempre più svuotato dei suoi residenti.
Dell’esodo verso Mestre e i comuni limitrofi si è quasi smesso di parlare, tanto esso sembra irreversibile. Dopo la prima grande emorragia di abitanti nel ventennio ’50-’60, quando lo sviluppo del petrolchimico di Porto Marghera attirò un terzo dei veneziani verso la città-dormitorio di terraferma, la gentrificazione e la monocultura turistica degli ultimi decenni hanno reso proibitivi i prezzi delle case in centro storico. In più, inutile negarlo, per molti abitanti la lentezza dei ritmi lagunari perde il confronto con le comodità di una città “normale”. Anche la “misura d’uomo” di Venezia rischia del resto di perdersi, schiacciata dalla pressione dei quasi trenta milioni di turisti l’anno e dal gigantismo delle crociere.
Tra quelli che resistono, in particolare se anziani, è diffusa una sorta di “sindrome del Mohicano”, fatta di chiusura ed insofferenza, di cui a volte fa le spese l’inconsapevole turista in coda alla fermata del vaporetto. Ma i mohicani sono pochi, per definizione. Con la fine dell’industria, i poli del territorio urbano sono ormai del tutto invertiti. Oggi è la città d’acqua ad essere (tornata) “zona industriale”, un distretto destinato quasi unicamente alla produzione di servizi turistici che dà lavoro alla maggior parte dei residenti del Comune.
Anche tanti continuatori delle antiche tradizioni remiere ora al servizio del turismo di massa, e cioè i gondolieri, e molti di coloro che passano la maggior parte delle loro giornate in acqua – i tassisti, i piloti dei lancioni turistici – vivono ormai in terraferma. Brugnaro ha colto perfettamente questa trasformazione. Da buon campagnolo, il Sindaco cita spesso nei suoi discorsi l’unione di “Stato da mar” e “Stato da tera” della Repubblica Serenissima, la quale controllava territori migliaia di volte più estesi della sua metropoli lagunare: ancora l’uso politico della Tradizione.
E così, Venezia città aperta e tollerante, laica e progressista, Venezia eccezione anche politica nel Veneto, diversa e legata ad esso dall’esile guinzaglio di un ponte ferroviario, è stata alla fine integrata, ridotta alla “normalità”. La diversità altezzosa dei veneziani è stata sconfitta dai veneziani stessi, che hanno scelto questo Sindaco votando con rabbia, verrebbe da dire. Rabbia e paura: i cittadini hanno paura e, ahimè, non hanno – non abbiamo – le idee chiare sul futuro di Venezia. Vivono la frustrazione di chi si nasconde dietro i fasti passati, dietro l’illusione dell'”autenticità” e della Tradizione – dalla quale Brugnaro esclude Klimt e Chagall – mentre, ironia della sorte, vivono e lavorano in una capitale del falso.
I letti finto Settecento delle camere d’albergo, la paccottiglia di vetro fatta in Cina le maschere di carnevale fatte in Romania e persino, non di rado, il «pesce fresco dell’Adriatico» pescato chissà dove. Caduta l’illusione della venezianità, anche la sindrome del mohicano d’acqua si dissolve infine nella paura di essere rimpiazzati tipica di ogni città interessata dalle migrazioni epocali. Naturale che chi vive in terraferma – e sperimenta ogni giorno un degrado urbano del tutto sconosciuto al visitatore di piazza S. Marco – non tema il turista, ma il migrante. Il che, per Venezia, città di migranti e un tempo «Porta d’Oriente», è forse la sconfitta più grande.
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