Turismo
Tornelli e nuovi alberghi, Venezia galleggia sulle contraddizioni
A Venezia si montano i tornelli per difendere la città dai turisti, ché son davvero troppi. Tuttavia, a Venezia si costruiscono nuovi alberghi – e si trasformano antichi palazzi in alberghi, e le isole sparse in laguna anch’esse in alberghi – per attirare e alloggiare sempre più turisti. Sembra una contraddizione, sembra persino assurdo; ma questo è.
Anche il racconto di questa storia sembra una contraddizione. Mentre i tg nazionali se la spassano con la storia dei tornelli, limitandosi a infilare le mani nel pittoresco, le cronache locali da tempo raccontano un’altra storia. Pescando quasi a caso tra i titoli – poiché mancherebbe lo spazio per dar conto d’ogni cosa, ma un’idea, quella sì, si riesce comunque a farsela – e limitandosi soltanto all’ultimo mese: «Maxi residence a Jesolo. Un progetto da 75 milioni»; «San Secondo, un altro hotel in laguna di Venezia: isola all’asta con veleni»; «Mestre, ecco il “muro” dei nuovi hotel. Maxi catene alberghiere straniere: cemento e migliaia di posti letto in via Ca’ Marcello». Insomma, il senso di quei tornelli davvero sfugge di fronte al fatto che lo scopo ultimo d’ogni scelta sembra quello di ammassare tra le calli quanti più corpi sia possibile.
Nel frattempo, così neri e lugubri, così solidamente stupidi, quei tornelli separano Venezia dalla vita, ne affermano l’estraneità rispetto alla sua stessa storia, concorrono a renderla effettivamente simile a ciò che non dovrebbe essere: non più una città viva e neppure un luna park ma definitivamente un fenomeno pop. E, allora, poi diventa difficile lamentarsi se in città si viene soprattutto per farsi un giro di giostra e nulla più, e se infine i turisti, trovando questa città sempre più stravolta, divaricata, separata da sé e dalla propria storia, la percepiscono come una delle tante Venezie posticce ricostruite in giro per il mondo e la trattano di conseguenza, inclusi gli improbabili bagni in laguna, le callette trasformate in alcove e i campi in pisciatoi.
L’arrivo di quei tornelli, insomma, per quanto poca cosa, e se anche fosse soltanto un atto simbolico, è tuttavia una ulteriore violenza contro la città. Il problema è che, per quanto simbolica, questa violenza – e lo stesso si dovrebbe dire a proposito del Mose, delle grandi navi e di molto altro ancora – nasce dentro la città stessa e, anzi, in una parte della città – quella che detiene il potere – contro il resto di Venezia la quale, a volte un po’ complice, altre un po’ distratta, spesso arresasi al non poter coltivare speranze diverse, fatica sempre più a resistere e dunque appassisce lentamente, si fa ancor più evanescente, rimpicciolisce, trasloca in terraferma o semplicemente sparisce per consunzione.
Ecco, insomma, che – e si perdoni l’auto citazione da Paracarri, cronache da un’Italia che nessuno racconta – «Venezia, complice di chi la tradì, s’è fatta conformista, ha abbandonato il piacere per il dovere, è sempre più inutile rappresentazione di se stessa. Oramai stremata dai torpedoni-umani, vomitati a getto continuo dalle grandi navi, i quali poi sciamano per la città che sulle loro rapide esigenze si rimodula, Venezia si consuma e consuma la sua storia e ciò che fu davvero. E così, davvero, muore; muore per mano dei veneziani stessi, e muore sempre più simile alla maschera di Aschenbach agonizzante nell’afa non già di Venezia ma del Lido, sul bordo della laguna, alla periferia della vita. E, forse, non a caso. Sicché, oggi, di lontano Malamocco si volta infine verso il mare. Ed è ciò che rimane».
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