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Nella Venezia di Brugnaro, dove chiudono i teatri e aprono i B&B

26 Maggio 2016

Il caso è quello di un piccolo teatro: duecento posti, programmazione mista di musica, teatro, danza, attenta soprattutto alle novità promosse da una direzione artistica competente e fantasiosa. Ben gestito per 13 anni da un’associazione che intreccia di continuo collaborazioni su scala locale, regionale e internazionale, e che non si lascia scappare le occasioni offerte da vari soggetti pubblici e privati per promuovere formazione e offrire residenze a giovani artisti. Il cartellone mette insieme soprattutto figure emergenti, spesso promosse e circuitate entro progetti europei, ed è premiato da un pubblico misto ‘ideale’, composto in modo equilibrato da una parte di fedeli appassionati e da un’altra, che si rinnova continuamente, di studenti. Lo spazio è accogliente, ben attrezzato e versatile, il palcoscenico è modulare e la platea si può agilmente sgomberare quando si preferisce una situazione più partecipativa e meno frontale, con gli spettatori in piedi a ballare anziché a meditare sulla poltroncina, oppure aggirarsi in un giardino-installazione allestito dalla Biennale Arte. Ed è appunto a Venezia che sta questo virtuoso e vivace teatro, quasi sempre pieno e molto amato in città. Una collocazione perfetta, in apparenza. Invece, come vedremo, nell’anno 2016 questo fatto è la sua sventura.

Il Teatro Fondamenta Nuove (TFN), così detto per la sua ubicazione in riva all’acqua – il fabbricato, un vecchio deposito di legname della Serenissima, si affaccia (splendidamente) sulla laguna nord, Murano alle viste – è stato di fatto chiuso dal Comune di Venezia qualche giorno fa. Un mesto comunicato dell’associazione Vortice, che ha finora gestito questa struttura privata per conto del Comune, ha annunciato che è costretta a sospendere l’attività perché proprio il Comune ha fatto mancare i denari che la tenevano in vita. lI TFN è stato atterrato da un fatale uno-due: prima il commissario subentrato nel 2014 al sindaco di centrosinistra Orsoni, travolto dallo scandalo del Mose, che ha impassibilmente dimezzato il contributo, e poi la giunta di centrodestra insediatasi l’anno scorso, che lo ha proprio azzerato. Un protocollo d’intesa stipulato in precedenza è stato ignorato; per un anno i responsabili del teatro hanno fatto invano anticamera in Comune, nessuno li ha mai ricevuti.

Quello del TFN a Venezia è un caso da manuale: era un organismo vivo e sano, di necessità dipendente per il suo funzionamento dalla costanza del contributo pubblico locale. Ma non ci si è adagiato sopra, inventandosi di continuo altri sostegni, cercando di ‘fare rete’ con tutto quanto di più vivace c’era in città, e anche fuori, e proprio per questo è riuscito a variare ancor di più ciò che produceva e offriva, spettacolo e formazione. Per intendersi, si sta parlando (cifre di un protocollo d’intesa del 2013), di 90000 euro per una struttura che impiega stabilmente uno staff di 3 persone più una decina di collaboratori saltuari, e produceva 25-30 eventi in un anno, a prezzi ovviamente popolari. Dunque non c’erano ‘sprechi’ o ‘assistenzialismi’ da sanare, a meno di non usare i concetti come clave per bastonare a morte ogni produzione di cultura che non si finanzi da sola. E poi non è nemmeno necessario ricorrere a certe retoriche, basta dire che non sono quelle le ‘priorità’ dell’amministrazione.

La chiusura del TFN segue a quelle di altre piccole e virtuose realtà di terraferma come il Teatrino della Murata e il Teatro del Parco a Mestre, ma fa più impressione perché riguarda un centro di produzione in crescita, e perché riguarda il centro storico. È solo apparente il paradosso che a Venezia, questa specie di ‘naturale’ capitale delle arti, siano ormai inesistenti gli spazi per iniziative di quelle dimensioni, che svolgono un importante lavoro di elaborazione culturale e di tessitura sociale, raccordata alle istituzioni maggiori. Di cui giustamente aspirerebbero a esserne il laboratorio e l’avanguardia. Ma il governo della città non le incoraggia e anzi sceglie di non vederle, perché ormai ciò che sta sopra il livello minimo di servizio alla residenzialità è derubricato a spesa improduttiva, rispetto al ‘core business’ di un turismo ormai cresciuto a dimensioni sgomentevoli.

Dunque, per quanto possa apparire sciagurata, si tratta di una scelta obiettivamente strategica, se si considera che il centro storico conta oggi appena 55.000 residenti (erano il doppio nel 1970), in calo regolare di 1000 unità l’anno; ci sono anche circa 20.000 studenti. Il turismo, per contro, impatta con presenze che si stimano sui 30 milioni all’anno, probabilmente di più, e a un ritmo di crescita del 4%.

La tendenza allo spopolamento sta accelerando da quando si sono allentati i vincoli (nella neolingua: “sostegno alla residenza”) che consentono a qualunque proprietario di trasformare l’appartamento in un b&b, perché conviene affittare a turisti molto più che a residenti, e magari trasferirsi a vivere di rendita in terraferma. Già, perché, lasciate da parte le retoriche identitarie, sono ben anche veneziani quelli che stanno ‘suicidando’ la città, se ormai un quarto degli appartamenti totali è a uso turistico.

Leggerei, a questo punto, realismo e coerenza nel gesto del nuovo sindaco Brugnaro che, insediatosi lo scorso anno, si è preso sette deleghe tra cui proprio la cultura, la quale è ora amministrata da un imprenditore che ha costruito la sua fortuna con un’agenzia di lavoro temporaneo ed è proprietario della squadra di basket locale. È un dinamico ‘uomo del fare’, Brugnaro: lo scorso anno aveva lanciato l’idea di fare cassa vendendo la Giuditta di Klimt del Museo di Ca’ Pesaro, perché in ogni caso opera “non legata, né per soggetto né per autore, alla storia della città”. E se la dichiarazione vi appare grottesca, provate anche a leggerla come risposta alla precedente giunta di centrosinistra, che aveva svenduto storici palazzi (questi direi senz’altro “legati alla città”), in una demolizione politicamente trasversale, simbolica non meno che concreta, del luogo e della sua identità.

Oltre ad avere un Teatro Lirico e un Teatro Stabile importanti, Venezia è la sede dell’unica istituzione artistica internazionale che vi sia in Italia, la Biennale. Vi sono poi sempre più foresti che in anni recenti si sono comperati importanti pezzi di città, come Pinault (Palazzo Grassi, Punta della Dogana) e Prada (Ca’ Corner), fino a vari soggetti minori, tutti quanti sbarcati in laguna per allestire la propria ricca vetrina. E infatti, salvo le eccezioni di organismi come la Fondazione Cini, che promuove soprattutto ricerca, Venezia è un luogo in cui si esibisce molto e si produce pochissimo.

All’estremo opposto della scala della visibilità si sviluppa poi una rete semiclandestina di luoghi espositivi e performativi di dimensione letteralmente domestica, dove si palpa il desiderio e anche la capacità di sviluppare dal basso qualcosa di originale. Ma è un microcosmo molto legato all’iniziativa degli studenti che, per quanto vivace, campa di un’economia minimale e precaria, è stagionale e non riesce a radicarsi. In mezzo, non resta quasi niente: a parte ipotesi ‘resistenti’ come quella del SALE – nato e animato da attivisti provenienti dai centri sociali – tra la grande istituzione indipendente e l’autogestione sotterranea, a Venezia ormai c’è uno spazio vuoto che la politica ha nei fatti scelto di abbandonare, radicalizzando quella che è ormai la tendenza generale.  Per questo il crollo simbolico di un teatrino come il TFN produce, in quel vuoto, una risonanza parecchio sinistra.

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