Il Fondaco dei tedeschi a Venezia

Venezia

La chiusura del Fondaco dei Tedeschi, il niente che resta se si confonde l’overtourism con lo sviluppo

Chiude il grande magazzino del lusso, inaugurato tra le polemiche dieci anni fa al Fondaco dei tedeschi, accanto al Ponte di Rialto. Un’occasione per riflettere sull’overtourism e l’impossibilità di sostenere certi immaginari e investimenti.

6 Febbraio 2025

Circa dieci anni fa, in occasione dell’apertura, abbiamo scritto per questi schermi una riflessione sul progetto architettonico e l’operazione urbanistica del Fondaco dei Tedeschi. Oggi in occasione della sua imminente chiusura, vogliamo proporre un breve bilancio e alcune riflessioni intorno al futuro dell’edificio veneziano.
Brevemente i dati della vicenda: aperto dopo un lungo dibattito sull’eventualità di rinnovare in modo così massiccio una struttura monumentale, il Fondaco dei Tedeschi ha costituito il progetto faro di una visione dell’intervento contemporaneo sull’esistente operata dallo studio OMA e dai partner italiani che hanno ideato e seguito il progetto. Nonostante queste premesse di alto livello culturale e un’offerta commerciale volta al lusso, l’operazione commerciale non ha avuto successo. Il prossimo aprile il Fondaco chiuderà le sue porte dopo che l’affittuario ha dichiarato l’impossibilità di rentabilizzare i costi della struttura. La notizia ha coperto le pagine dei quotidiani e la crisi occupazionale ha comportato interventi (si perderanno più di duecento posti di lavoro, senza contare l’indotto delle imprese di servizio) che, andando oltre il livello regionale, hanno mosso perfino la politica nazionale. A nostro modo di vedere, discutere questo intervento, prima ancora che di impiego e di salariati, corrisponde a discutere di vita della città. E non perché la città sia un monumento, un insieme di costruzioni che contano più delle vite umane, ma per il motivo che, senza una minima idea di quel che accompagna i processi urbani, ci si infila in dinamiche nelle quali la sorpresa per precarietà dei posti di lavoro sarà sempre più proporzionale all’incapacità di poter assicurare una prospettiva di sicurezza per lavoratrici e lavoratori.

Ma andiamo con ordine. Il primo dato su cui elaborare una riflessione è che la durata di questi interventi, in quelli che potremmo chiamare “grandi interni urbani”, è ormai limitata a un decennio. Un decennio di resistenza, più che di prospettiva ed espansione, se guardiamo ai casi recenti dell’Excelsior a Milano (durato molto meno dello spazio veneziano) e in altre città d’Italia e d’Europa. Se apparentemente nessuno poteva immaginare un simile esito, la verità è che l’operazione è sempre sembrata estremamente ambigua a chi frequentasse costantemente, anche solo per pisciare (torneremo poi su questo punto), questi spazi. Il centro di commerci è sempre apparso poco affollato e, anche quando lo era, solo da un pubblico di visitatori piuttosto che da compratori e compratrici.
Un ottimo recente articolo di VeneziaToday ha recentemente ricostruito i dati reali sui costi del centro, modificando al rialzo le cifre che erano sempre ufficiosamente circolate (Affitto del Fondaco dei Tedeschi, quanto paga Dfs ai Benetton?):

“Il contratto d’affitto stipulato nel 2016 tra Edizione e Dfs, che VeneziaToday ha potuto visionare, tratta l’affitto del Fondaco dei Tedeschi come l’affitto di un “complesso aziendale”, o in breve azienda: oltre all’immobile in sé, Edizione affitta, per nove anni, rinnovabili (dal 21 settembre 2016 al 22 settembre 2025), il brand Fondaco dei Tedeschi con relative licenze commerciali.  Il canone è calcolato nel contratto in una maniera piuttosto complessa: sulla base del volume d’affari (o fatturato) annuo. Dfs era tenuta a pagare il 10% del volume d’affari annuo più Iva sino ad € 90 milioni di euro di fatturato annuo; il 7,5% del volume d’affari da 90 a 120 milioni di euro di fatturato; il 5% del volume d’affari annuo da 120 a 150 milioni di euro; il 2,5% del volume d’affari annuo al di sopra di € 150 milioni, il tutto sempre più Iva. In breve, se il fatturato fosse stato di 89 milioni, avrebbe dovuto pagare 8,9 milioni di euro d’affitto più iva, se fosse stato, ad esempio, di 151 milioni, avrebbe dovuto pagare 3,8 milioni d’affitto. Ma non è così semplice. Il contratto infatti stabilisce anche un “canone minimo” annuo, sotto il quale non si poteva andare: e questo è di 8 milioni di euro, al netto di Iva. Per i primi due anni, cioè dal settembre 2016 al settembre 2018, si prevedeva uno sconto: 6 milioni per il primo anno, 7 per il secondo. Poi a regime. I costi però dovevano essere maggiorati, dal 2020 in poi, del 100% della variazione percentuale, in aumento, dell’indice Istat del costo della vita per le famiglie di operai ed impiegati. Quindi nel 2024, data l’inflazione scoppiata, sono arrivati a circa 9,5 milioni di euro. Guardando i fatturati pubblici di Dfs Italia dal 2016 al 2023, solo in un anno (il 2019) i ricavi hanno superato le perdite, divenute come noto molto abbondanti dal Covid in poi, dato il blocco dei flussi turistici asiatici su cui contava lo store. Ma comunque, anche con fatturati bassi (sono stati poco più di 22 milioni nel 2022) il canone minimo stabilito garantiva a Edizione (e poi a Regia, la società di Sabrina Benetton che ha acquisito nel 2023 la proprietà del Fondaco e i diritti sul contratto d’affitto) un’entrata stabile, vicina o superiore ai 10 milioni di euro lordi.”

Affinché l’affittuario abbia un guadagno proporzionato all’investimento servono entrare di 16 milioni annui (al netto di tasse, spese, salari, etc.), ovvero circa a circa 45.000 euro al giorno. Ora, se questo è un montante di rincaro alto, anche con riducendolo al 25% oltre l’affitto, la somma resterebbe comunque di  circa 30.000 euro giornaliere. Oltre 3.500 euro all’ora: una borsa da 1000 euro circa ogni 15 minuti. Lasciamo a chi legge immaginare la massa di acquisti compulsivi alla quale un simile scenario – dalle 10 del mattino alle 19 di sera – dovrebbe dar vita, ricordando al tempo stesso che per quattro profumi servirebbe aumentare gli acquisti a quattro ogni quarto d’ora e così via, in un crescendo esponenziale di spese sempre più numerose allo scendere del prezzo della merce venduta. A fronte di queste cifre, che vivono di un discreto ottimismo, ma soprattutto di un modo di intendere i “grandi interni urbani” esclusivamente in chiave commerciale  che porta a dover contabilizzare ogni elemento, ricordo l’enorme ottimismo sulla durata dell’impresa da parte di un addetta alle vendite in occasione della visita ufficiale al settore profumi dell’ultimo piano. Giustamente, per chi quel lavoro era già contento di averlo trovato, non si chiedeva quanto sarebbe durato e negando alcune evidenze sulla complessità dell’accesso tramite le scale mobili che limitavano l’accesso al settore, cercava di convincere della possibilità di essere tra i primi ad acquistare “prodotti di prima qualità, che nessuno aveva ancora in città”.

Questo imaginario da grandi magazzini degli anni Trenta si scontra oggi contro un mondo che del tempo di un secolo fa non ha più nulla. Non solo perché in quegli anni il Fondaco fu trasformato in una macchina pubblica che, nel più pieno spirito del regime, dava lavoro a centinaia di impiegati delle poste e telegrafi, ma anche perché a determinare le prospettive della durata sono oggi le dinamiche del turismo. E dieci anni nell’epoca del turismo globale, corrispondono a un’era geologica. Più che pensare che si possa essere al riparo dai cambiamenti di tali fenomeni, in iniziative come queste, si dovrebbe tenere in conto, anche da parte del pubblico che valuta e approva questi interventi, della prospettiva temporale molto breve, e magari pensare soluzioni temporanee, transitorie, facilmente modificabili anche in contesti monumentali come quelli del Fondaco.

Passiamo ora al secondo dato di fondo. La crisi economica del Fondaco sarebbe determinata dalla pandemia, che ha azzerato le entrate per troppo tempo esponendo l’affittuario a perdite oramai non recuperabili, nemmeno nella bella prospettiva dei guadagni attuali.

Il Fondaco rappresenta in questo senso uno dei punti di maggiore visibilità dell’esplosione dell’overturism nella città. Decisamente meno importante dei lucchetti e del pervasivo affidamento del patrimonio residenziale all’affitto turistico, esso si esprime però nelle contraddizioni del modo d’uso dell’elemento di maggior successo del progetto: la celebre terrazza-belvedere sul tetto dell’edificio. Capace di offrire l’esperienza unica e inconsueta per Venezia – a parte di salire, pagando, sul Campanile di San Marco o la Torre dell’Orologio – della vista dall’alto della città, la terrazza attira un massa costante di turisti al punto tale che le visite sono ora contingentate e si basano su un sistema di prenotazione costantemente saturo. La presenza incombente dei turisti ha ovviamente reso impossibile il rispetto dei uno dei punti di accordo tra comune e proprietà al momento per l’approvazione dell’intervento, la possibilità di accesso costante a quello spazio da parte dei residenti. Probabilmente il provvedimento era demagogico, visto che come sottolieammo all’epoca, proprio la ricerca del cosiddetto “effetto Torre Eiffel” era considerata una strategia per rendere attraente il centro commerciale e che non essendo state mai attivate le attività commerciali previste – proprio la rinuncia al caffè sul tetto, stile Rinascente (il primo affittuario previsto per il Fondaco) fu una delle vittorie dei comitati di conservazione – rendevano la terrazza un luogo di improbabile visita quotidiana per i residenti.

Il successo della terrazza – inizialmente concepita come una “vasca”, ovvero uno scavo nella pendenza del tetto – non solo ha avuto una nefasta influenza sull’edilizia locale, sdoganando interventi simili in altri cantieri di prestigio, compreso lo scandalo del tetto Procuratie Vecchie (ma contro il quale i soloni che si opposero all’intervento sul Fondaco, non si sono minimamente preoccupati di intervenire con la stessa veemenza), ma soprattutto è diventata l’indicatore del livello di occupazione da parte delle truppe turistiche. Una dimensione predominante, che dopo la parabola della pandemia, ha reso la città non più confortevole per qualunque attività urbana di tipo normale.

La realtà sembra che oramai non sia più possibile quella sovrapposizione tra locale e “foresto”, che ha segnato l’identità della città da quando questa ha inventato il turismo di arte e piacere (e non di pellegrinaggio). Anche la stessa prospettiva di un centro di vendita della qualità dell’artigianato “locale”, come si proponeva di essere nelle sue ambizioni più alte il Fondaco, dovrebbe tenere conto di questa condizione. Un emporio per stranieri dove gli abitanti fan fatica ad entrare perchè sono i primi ad evitare quelle calli over-intasate dal turismo, può essere un luogo d’incontro? Le molte iniziative “culturali” che animano il programma che il Fondaco si è dato per proporre un profilo non solo “commerciale” ai propri spazi, sono un segnale di partecipazione locale, o un simbolico contentino ancora in eco alle polemiche contro l’operazione?

Comunque sia, forse, nel ripensare questo “grande interno urbano”, può essere interessante prendere in considerazione il fatto che, secondo quanto afferma la stampa, che il nuovo crollo economico del centro nel 2024 sarebbe stato determinato con tutta probabilità dal fatto che scarseggiano turisti russi e cinesi. In altre parole – al di là dei problemi di coscienza sul “a chi vendo tutto ciò?” che non sembrano interessare proprio nessuno – si dovrà prendere in conto il fatto di confermare al centro della città una funzione come questa. Ovvero, come affrontare quel tipo di un conflitto frequente nelle altre città dell’overtourism,  che vede gli i clienti e gli eventi “esclusivi” (sfilate, blockbuster, Marvel Comics, banchetti, ecc.) richiedere sempre più scenografie iconiche (a Venezia, Palazzo Ducale, l’Arsenale, pochi punti del Canal Grande), che insistono sul riconoscimento ovvio del luogo e del monumento, con ricadute non infrequenti e importanti sul funzionamento e la percezione della città.

E ora concludiamo con le prospettive.
La voce che gira è che tutto si risolverà con un nuovo contratto, che azzerando anche le posizioni dell’impiego lasci il futuro operatore ancora più libero di agire.  Ai veneziani non resterà che insistere per continuare ad usarlo come un “pisciatoio”, ricordando che il grande successo dell’amministrazione dell’epoca presso fu di assicurare l’accesso continuativo e non condizionato ai servizi pubblici. Anche se va rilevato che, con il tempo da un lato le aperture e passaggi all’interno sono stati progressivamente ridotti e gli addetti alla sicurezza sono diventati sempre più solerti nel non lasciar accedere all’edificio persone che potessero suggerire comportamenti non conformi all’acquisto o alla visita.
Come sempre la gestione nel tempo di questi processi, fenomeni, spazi, edifici, è qualcosa che smette di essere controllata efficacemente, modificando anche le regole stabilite nei contratti iniziali. E questo è un punto cruciale, specie nella dimensione amministrativa della gestione delle decisioni pubbliche. Più che trovare una soluzione per il presente, per riempire un “vuoto” che di fatto non dava problemi a nessuno (francamente a nessuno, se non a chi questo voto ce lo aveva sul gobbone per i costi dell’assicurarne la stabilità fisica e il non deterioramento del valore), si tratta sempre di riuscire a trovare delle soluzioni per il lungo periodo. Non nel senso di funzioni che permangano per sempre. Non sono mai esistite e mai esisteranno, ma nel senso di pensare alla risoluzione di questioni, problemini, logichette, cosettine, utili e pratiche alla cittadinanza tutta. E va remengo pure il solito discorsetto su “i venesiani, sempre meno, sempre manco considerai”… perché un edificio come questo, con questo intento “internazionalistico”, potrebbe essere rivolto a comprendere e accogliere anche e spesso le persone normali che visitano per tante ragioni la città e che fanno di Venezia ancora una città. Ovvero proprio quelle che non si recano in città solo per turismo, e che con le loro attività (di visita di parenti, di lavoro, di partecipazione a funerali, lauree, matrimoni, eventi sportivi, ecc.) hanno messo in discussione il famoso ticket di entrata “per i turisti”, rivelandone tutta la sua verità di demagogico modo per far cassa e per cominciare a innescare un sistema di controllo sistematico dell’abitante/visitarore urbano.

Ecco questo sembra essere un insegnamento della “vicenda del Fondaco”. Le teorizzazioni del dibattito architettonico conservazione/restauro, monumento/architettura contemporanea, Harvard Guide to Shopping (il più celebre “progetto sulla citta” di OMA degli anni precedenti all’intervento al Fondaco) sembrano essersi dissolte ancora prima dell’apertura del centro, con il passaggio a un affittuario che decise di chiedere allestimenti interni ad altre firme, facendo sparire qualsiasi elegante soluzione architettonica dietro scenografie cartonate, elementi tecnici e arredi aggressive luxury. Ad emergere ed essere rilevanti sono invece state alcune questioni come : i cessi (come servizi di base per igiene urbana), le modalità di accesso (a spazi, come ad esempio la terrazza, al tempo stesso globali e locali), i costi di gestione (degli elementi tecnologici che permettono il funzionamento degli spazi interni, come ascensori, scale mobili, ecc.), le modalità di manutenzione (non solo pulizia, ma anche e soprattutto “sicurezza” passiva e attiva delle attività commerciali), ecc. Un insieme che indica come la vita della città concerne sì l’architettura, ma da un punto di vista molto ravvicinato. Qualcosa che rende immediatamente verificabile se le soluzioni proposte funzionano o meno senza rimandare il destino di luoghi e persone a un universo lontano e capriccioso di compratori esotici.

Se vent’anni fa Rem Koolhaas – che nel frattempo però, dopo una vita di città, ha restituito le braccia all’agricoltura dedicandosi al Countryside – sosteneva che “lo shopping è probabilmente l’ultima forma rimasta di attività pubblica”. Oggi, dopo aver appreso che considerazioni come quelle servivano solo a disegnare il fronte verso il pubblico dei processi che stanno sempre più alienando le città dalle vite dei loro abitanti, sarà forse invece il caso di rovesciare la prospettiva. Rendere visibile una “spazialità” diversa, nascosta nell’anonimato dell’uso quotidiano, che renda esplicito ad esempio dove e come funziona la macchina del “grande interno urbano” e come essa si connette alla città attraverso un esercito di impiegate, addetti e personale che la fa vivere. Un modo, forse, utile anche ad aiutare a costruire più durature prospettive per l’impiego.

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi collaborare ?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.