Urbanistica
Una nuova architettura per la solidarietà
“Il progetto architettonico è un atto politico”. Questa affermazione ha spesso nutrito visioni molto diverse – dalla difesa dell’autonomia disciplinare alla concezione dell’”architetto condotto” – ma prodotto soluzioni di difficile realizzazione. Negli ultimi anni, un campo ha offerto la possibilità di testare questo assunto: le catastrofi naturali o le grandi migrazioni dai paesi in conflitto. In coincidenza di questi eventi drammatici, alcuni architetti hanno iniziato a lavorare sull’opportunità di costruire luoghi, abitazioni e spazi che possano contribuire concretamente a garantire alla precarietà una qualità inattesa. Dalle case con i tubi in cartone di Shigeru Ban – costruite in occasione dei terremoti in Giappone e Turchia alla fine degli anni novanta – sino agli interventi dell’associazione Architectes Sans Frontières, è ormai palese come l’emergenza sia diventata un tema di riflessione anche per gli architetti. L’ultima Biennale di Architettura di Venezia se ne è accorta, proponendo una visione from the front.
Dismessi i papillon o gli immancabili abiti neri, molti hanno indossato gli stivali di gomma e visitato i luoghi in cui la disciplina può trovare una concretezza “politica”, spesso condivisa e concertata con gli utenti finali. Con questo spirito è nata Maidan Tent, un progetto promosso da due giovani architetti – Bonaventura Visconti di Modrone e Leo Bettini Oberkalmsteiner – che hanno individuato nella mancanza di uno spazio pubblico la vera falla dei campi di accoglienza per i profughi. A partire da quello situato a Ritsona, Grecia, i due progettisti hanno indagato la quotidianità dei settecento rifugiati, analizzando gli usi e le funzioni presenti nel campo.
La proposta finale – commissionata dalla Ong Echo100 plus, patrocinata anche dalla IOM (International Organization for Migration) dell’ONU e in cerca di finanziatori mediante una campagna di crowfunding – prevede una piazza coperta da una tenda circolare divisa in otto settori attraverso cui modulare il grado di privacy delle persone – lo spazio centrale è condiviso mentre le otto stanze radiali possono essere ripartite – così da offrire non solo uno spazio ma soprattutto un luogo, una piazza, in cui l’alienazione del tempo trascorso nell’inattività possa essere mitigata dalla condivisione di funzioni e usi inattesi e non previsti. Uno spazio flessibile ma non indifferente che lavora sulle relazioni e non soltanto sull’esigenze primarie, ponendosi come prototipo per condizioni analoghe in cui normalmente lo spazio pubblico è definito soltanto dalla distanza tra le tende o dai container. E il tempo dall’attesa di ottenere un permesso.
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