Urbanistica

Tutti pazzi per Pinqua, la qualità dell’abitare alla prova della innovazione

29 Marzo 2021

Case e rigenerazione urbana. Cos’altro rischia di innovare l’ultimo Programma Innovativo Nazionale per la Qualità dell’Abitare?

Di Nicla Dattomo e Chiara Rizzica.

Il 16 marzo scorso si è chiusa la prima fase di raccolta di proposte progettuali per il PINQuA, il Programma Innovativo Nazionale per la Qualità dell’Abitare promosso congiuntamente dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT), competente per le politiche abitative, e dal Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, che si propone di finanziare con 853 milioni di euro interventi di rigenerazione urbana, da attuarsi entro il 2033 e finalizzati a «ridurre il disagio abitativo e insediativo, con particolare riferimento alle periferie».

Fortemente voluto dalla ex Ministra Paola De Micheli, prima firmataria del Decreto che ne definiva procedure, criteri di valutazione e modalità di attuazione, il programma è senz’altro ambizioso, perché punta a «riqualificare e incrementare il patrimonio di edilizia residenziale sociale, rigenerare il tessuto socio-economico, incrementare l’accessibilità, la sicurezza dei luoghi e la rifunzionalizzazione di spazi e immobili pubblici, nonché (sic!) migliorare la coesione sociale e la qualità della vita dei cittadini, in un’ottica di sostenibilità e densificazione, senza consumo di nuovo suolo e secondo il modello urbano della città intelligente, inclusiva e sostenibile (Smart City)». Tutto questo, sollecitando proposte d’intervento su ambiti urbani consolidati, che abbiano caratteri di fragilità e si trovino in aree ad elevata tensione abitativa.

Sono territori eleggibili i capoluoghi di provincia, i comuni interni alle aree metropolitane e quelli, più in generale, con oltre sessantamila abitanti. Il proponente – Comune, Città Metropolitana o Regione come aggregatore – può presentare fino a un massimo di tre proposte, di due tipi: una “ordinaria”, con richiesta di finanziamento fino 15 milioni di euro, e una “pilota” – ad alto impatto strategico sul territorio nazionale, da cofinanziarsi anche con eventuali ulteriori risorse, comprese quelle del Recovery Plan – con budget da 100 milioni di euro. Il 34% delle risorse complessive è prioritariamente destinato a interventi nelle regioni del Mezzogiorno.

Come una vera e propria chiamata alle armi – in un tempo avaro di politiche abitative nazionali – la pubblicazione del bando ha scatenato tra novembre e marzo una “pazza corsa al progetto” in moltissime amministrazioni locali. Da Pordenone a Ragusa un’onda ha investito gli uffici comunali e l’operazione PINQuA, con quel buffo nome da cartone animato, ha occupato gran parte del tempo e delle energie di tanti professionisti, dentro e fuori la Pubblica Amministrazione. Sulla piattaforma on line di PINQuA si sono accreditati circa 170 proponenti e, se ciascuno ha presentato tre proposte, ci troviamo davanti una mole di circa 500 ipotesi di intervento di rigenerazione urbana su tutto il territorio nazionale. Cinquecento progetti che, se ci si è attenuti alla ratio del bando, avranno in comune il fatto di rimettere al centro il ruolo delle politiche abitative rispetto alla trasformazione delle città, non solo occupandosi dei volumi del patrimonio di edilizia residenziale, specie pubblico, ma anche del come si abita.

Qui proviamo, con i nostri punti di vista complementari e solidali e avendo lavorato su alcune proposte PINQuA, a raccontare quel che abbiamo visto e anche quel che abbiamo intravisto – o ci aspettiamo rilevi – riguardo al futuro delle città e del nostro lavoro da architetti e urbanisti: alcuni nodi critici e una speranza. Pensiamo, infatti, che al di là di alcune contraddizioni e qualche ingenuità, PINQuA offra più di un elemento per rilanciare un dibattito sul progetto quanto mai necessario, in tempi di “transizioni” e di grandi “piani di ripresa”.

Cosa c’è di nuovo? 
Lo strumento e le finalità rimandano ad alcuni precedenti, nel quadro delle politiche nazionali degli ultimi anni: il poderoso Piano Periferie del 2017 – 2,1 miliardi di euro e 120 progetti in diverse città, per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie – e la delibera CIPE 127/2017, esplicitamente richiamata da PINQuA, che riprogrammava l’utilizzo di un ultimo avanzo di risorse (350 milioni di euro) stanziate con la Legge per l’edilizia residenziale pubblica del 1978 – quarantatré anni fa – per finanziare interventi di riqualificazione del patrimonio ERP e di «rigenerazione di quartieri degradati». A volerne tracciare una specie di genealogia, PINQuA ricorda anche i vecchi Contratti di Quartiere, che avevano originato un primo programma nel 1998 e un secondo nel 2002.

Questo sguardo all’indietro è utile perché ci fa vedere la ricorrenza di alcune parole cruciali – qualità e periferia ad esempio – e perché mette in evidenza come esista un filo rosso, almeno nelle intenzioni delle politiche di rigenerazione urbana; allo stesso tempo, rimarca la specificità del PINQuA nell’incardinare quelle politiche sul tema dell’abitare e, più specificatamente, sui servizi abitativi pubblici e sociali.

2. Cosa c’è di strano?
Molti livelli. Troppi numeri. PINQuA ha una dimensione intenzionalmente complessa, ma la descrive in maniera complicata: stabilisce degli obiettivi generali, indica anche 5 linee di azioni privilegiate per il loro conseguimento e, per la valutazione delle proposte, applica una matrice che si basa su 7 differenti criteri, i quali si traducono in 6 serie di impatti, a loro volta misurabili attraverso 30 indicatori. Al di là del disorientamento, ciò in cui si rischia di creare un corto circuito è l’equilibrio tra estensione degli impatti e loro profondità. Nella definizione delle strategie, valgono di più la coerenza, la focalizzazione su obiettivi peculiari e specifici, o la diversificazione dei campi di intervento e delle linee di azione? E come si fa a fare un progetto che affronti efficacemente tutte le questioni? In altre parole: vince chi cucina il piatto più buono o chi usa tutti gli ingredienti?
Misurare tutto, misurare come. Sono gli indicatori di impatto a suscitare più perplessità, non solo per gli oggetti che scelgono di misurare, ma perché appare poco convincente che a impatti come quello sociale o culturale possano corrispondere indicatori in metri quadrati: una distorsione che non solo potrebbe aver indotto, a furia di massimizzare gli indicatori, a diluire, stiracchiare, pasticciare le proposte (serve qualche metro quadro di scuole, aggiungi un quanto basta di verde, etc.), ma che, soprattutto, osservando il “quanto”, non riesce a introdurre misure indirette che diano oggettività a un “come” e finisce col veicolare la visione di una qualità – che è l’obiettivo ultimo del programma – che “passa tutta attraverso le cose”, i manufatti di cui è costruita la città.

In realtà, in che misura saranno usate le misurazioni (non c’è scampo al bisticcio di parole) nel valutare le proposte è uno dei misteri di PINQuA: la rispondenza ai criteri, recita infatti il bando, potrà essere valutata anche con riferimento agli indicatori quantitativi. Rimane l’alea della valutazione qualitativa.

La prima è tecnica: non ci pare di aver colto una esplicita definizione di proposta non ammissibile; il che lascia credere che – a meno di non aver candidato opere non finanziabili, come per esempio costruire un aeroporto su green field – tutte le proposte entreranno in una qualche graduatoria, fino a esaurimento dei finanziamenti. E se i fondi aumentassero per effetto ad esempio del Recovery Plan, si andrebbe a scorrere la graduatoria? Ma fino a dove? Fino a finanziare progetti anche solo appena coerenti con il bando? E fino a quando? Con ripescaggi anche fra tre, cinque, dieci, quarant’anni (vedi sopra le risorse del 1978), a condizioni magari affatto diverse? Sulle altre due definizioni mancate si potrebbero scrivere trattati, qui le richiamiamo per la centralità che hanno rispetto a PINQuA: periferie e abitare sociale.

Diamo per inteso che le prime non siano geografiche o che possano qualificarsi comeperiferie funzionali; tutto questo come se non esistessero rendite di posizione e come se gli impatti e i possibili esiti della rigenerazione di una “periferia centrale” fossero uguali a quelli di un quartiere satellite e segregato. Diamo anche per assodato che il secondo contempli tutto l’ampio spettro che va dai servizi di accoglienza all’edilizia convenzionata, in particolare includendo tutto il segmento del cosiddetto social housing, con le sue platee di destinatari definite dal Piano Casa del 2008; tutto questo come se ci fosse un quadro normativo omogeneo e coerente su tutto il territorio nazionale.

Tempi brevi, tempi lunghi. Alle proposte bisognava allegare progetti di fattibilità tecnico-economica, dei quali i proponenti hanno dovuto attestare la congruenza normativa e la sostenibilità finanziaria; in genere, i progetti sono stati approvati con delibere della giunta comunale. Questo ha generato uno strano stretching, da un lato richiedendo che i progetti fossero abbastanza avanzati da poterne consentire le approvazioni formali, dall’altro congelandoli tramite quelle approvazioni dentro a un iter che, se tutto va come deve andare, non vedrà siglare gli accordi di programma prima della fine del 2022.

Quanto tutto ciò ha rischiato di tradursi in una spinta a recuperare bozze di progetti inattuati, a riorientare procedure in corso, a vestire di rosa PINQuA un programma svuota-cassetti? Quanto peserà sugli impatti di ciò che si realizzerà l’aver approvato progetti che magari, in qualche caso, avranno avuto l’unico merito di trovarsi quasi pronti, senza ulteriori possibilità di affinamento della strategia, specie nel quadro di un processo così lungo, che rischia di vedere mutare tutte le condizioni al contorno mentre i progetti stessi restano immobili?

Lo stesso ragionamento vale per la formalizzazione delle partnership di progetto, che il bando PINQuA richiede e premia: difficili da costruire e sancire in 120 giorni e senza ancora la certezza del finanziamento pubblico, a meno di semplici manifestazioni di interesse e protocolli di intesa che dovranno necessariamente rimandare a successive procedure competitive e negoziate. Come ingaggiare i possibili partner e come selezionare i migliori se non ci sono i tempi e le condizioni per usare gli strumenti disponibili per una PA a questo scopo? Quanto questo non ha fatto cadere la scelta su progetti già in pipeline, con i partner già ingaggiati anche su altri obiettivi e a condizioni incongrue rispetto a questo bando?  Quanto tutto ciò non finirà col favorire quei comuni che hanno già in corso tavoli di concertazione con gli operatori del privato e prassi consolidate di collaborazione?

Le care vecchie poste. Il ministero ha allestito una piattaforma per la compilazione online di un modulo di sintesi della proposta. Ma se sulla piattaforma on line c’è posto solo per il modello PINQUA con i suoi indicatori micidiali, tutti i progetti di fattibilità tecnico-economica dove sono andati a finire? Li si è spediti a Roma con una raccomandata delle poste, come previsto dal bando, perché la piattaforma digitale ci vuole, ma anche le scartoffie.

3. Ma qual è il disegno, se c’è? 
Quale fotografia dell’Italia ci restituirà la graduatoria dei vincitori?
Stabilito che ci sarà almeno una proposta finanziata per regione e almeno un terzo dei fondi al Sud, non è possibile provare a fare pronostici perché non si sa quanti fondi andranno a copertura dei progetti pilota da 100 milioni e quanti a progetti da 15 milioni. Sulla carta, sono favorite le Regioni con grandi centri urbani (Lombardia, Emilia Romagna e Toscana, Sicilia e Campania) e quelle con più comuni ad elevata tensione abitativa (la Campania, più di tutte, ma i numeri sono elevati in tutto il Mezzogiorno, mentre in Lombardia vige una sperequazione profonda tra la provincia milanese e tutte le altre).

Ma non è solo la dimensione del bisogno a orientare le risorse: è anche la capacità di captarle. Risultano, infatti, determinanti per la selezione anche l’esistenza di un privato sociale capace di allearsi con il pubblico nella produzione di edilizia residenziale sociale, la capacità delle amministrazioni di orchestrare la regia di progetti complessi, la presenza di un tessuto di professionisti esperti in grado di supportarle in questo compito, la propensione all’innovazione, ad esempio nella realizzazione di interventi di mobilità sostenibile, di riqualificazione ambientale, di riconversione energetica, la capacità di mettere in campo misure, già altrimenti finanziate che accompagnino e attivino gli interventi (perché PINQuA le premia, ma non le finanzia), l’esistenza di tessuti sociali attivi. Non ultimo, la capacità di anticipare la spesa o accedere al credito, a fronte di una erogazione dei fondi del MIT che prevede di rilasciare l’ultimo 20% nel 2033.

Dov’è questa Italia? E un bando come questo è capace di sollecitare meccanismi virtuosi dove ce n’è più bisogno, o piuttosto rischia di premiare territori che sono già meno fragili, perché hanno già sviluppato capacità di reazione? Se aggiungiamo che sono oggetto di valutazione anche la coerenza con il quadro delle politiche abitative regionali (e dove non ci sono?) e la presenza di progettualità pregresse che le nuove proposte ambiscano a integrare (e dove non ci sono?), è legittimo domandarsi se PINQuA si sia posto l’obiettivo e si sia dato gli strumenti per incidere sugli squilibri, per ricomporre i divari invece di consolidarli, e per innescare innovazione invece che inseguirla dove già si manifesta.

4. La coesione sociale sì, ma gratis
Tra le linee di azione privilegiate indicate nel bando ci sono il coinvolgimento di operatori privati, anche del Terzo settore, e «il ricorso a misure e modelli innovativi di gestione, di sostegno e di inclusione sociale, di welfare urbano e di attivazione di processi partecipativi», e allo stesso tempo si specifica che «tutti gli interventi e le misure devono mirare a soluzioni durevoli per la rigenerazione del tessuto socioeconomico, il miglioramento della coesione sociale, l’arricchimento culturale».
Dunque saranno premiate le proposte che oltre la dimensione edilizia e urbana includono anche quella immateriale dei processi di attivazione di comunità locale? Che agganciano le iniziative collaborative e di co-produzione di servizi di interesse generale, potendo contare sul ruolo del Terzo Settore e della comunità locale? Sì, però PINQuA non le paga, finanziando solo opere edili e di incremento della dotazione di infrastrutture e servizi alla scala di quartiere.

L’introduzione di nuove misure di welfare per l’inclusione sociale è dunque destinata ad attuarsi solo a condizione che trovi “benefattori” o venga finanziata con risorse proprie dai Comuni. L’eventualità di sviluppare piani di accompagnamento sociale – all’antica, come nei Contratti di Quartiere – resta nell’archivio delle buone pratiche. La partecipazione è premiata, ma non può essere esposta come un costo tecnico con buona pace degli esperti di innovazione sociale, che saranno pure esperti, ma non hanno tariffe da codice degli appalti. Di più, ogni ragionamento sull’integrazione di servizi abitativi e di prossimità – che occupa tanta parte del dibattito attuale sulla città post-covid – è confinato in un limbo di “si potrebbe anche fare”.

Di certo è possibile aggirare l’ostacolo di dover prevedere un «sistema organico di interventi e misure» di inclusione sociale, i primi finanziabili, le seconde no, facendo leva su risorse endogene, materiali e immateriali, per la rigenerazione urbana. Bene, perché sempre di più le città esprimono già energie dal basso rigogliose e potenti. Male, però, continuare a pensare che al pubblico tocchi solo l’hardware e alla comunità locale e al Terzo Settore il software. Specie in questi tempi oscuri di accelerazione di vecchie e nuove marginalità non è possibile lasciare al condizionale il welfare. Nel bel mezzo della pandemia, resta confermata, e anzi è rinforzata, la necessità che la “qualità dell’abitare”, per essere generativa di nuove opportunità di benessere degli abitanti, debba essere integrata con la dimensione del welfare territoriale. E serve affermare, e affermare, e affermare che questo può e deve essere oggetto di un progetto.

5. L’innovazione nonostante tutto
Al netto dei ragionamenti su contraddizioni e punti critici, è evidente che PINQuA ha smosso il terreno e lo prepara a dei germogli di cui abbiamo bisogno.

In primo luogo, in assenza di invocate leggi sulla questione, PINQuA dichiara “senza se e senza ma” un coraggioso ed esplicito no al consumo di suolo e lo fa nell’ambito del progetto della residenza. Secondo, afferma finalmente che il progetto della “città pubblica” – servizi abitativi e di quartiere, reti lunghe e corte di prossimità – è il campo di lavoro prioritario per la rigenerazione urbana, archiviando i grandi contenitori di servizi, le grandi infrastrutture, la svolta tech, la svolta green, la svolta social, l’equivoco del rammendo delle periferie. Terzo a metà, perché si continua a valutare e finanziare sempre solo l’aspetto edilizio, si rimanda alla necessità di accompagnare la trasformazione fisica con azioni immateriali, con politiche di coesione e riproduzione di capitale urbano.

Last but not least, il bando ha messo a lavoro sulla città centinaia di tecnici della PA e consulenti, a cui ha richiesto conoscenze e competenze che non solo rappresentano una sfida per le Pubbliche Amministrazioni, ma sono di per sé sufficientemente innovative da riaprire un dibattito ben più esteso sui campi e sui ruoli dei saperi esperti. Chi progetterà la città pubblica dei prossimi dieci anni, post-pandemia? Chi dentro le PA e con quali collaborazioni dall’esterno? Cosa è richiesto per affrontare questo compito?

Per redigere una proposta PINQuA sono servite competenze multidisciplinari, multisettoriali e multilivello, in ambiti che riguardano il progetto urbano, il disegno architettonico, l’innovazione tecnica e tecnologica, il design dei servizi, il disegno di policy, l’architettura finanziaria, il community organizing e l’attivazione di processi di ingaggio, collaborazione e concertazione degli interessi, non solo rivolti a costruire partnership ma anche a rendere le comunità partecipi – se non protagoniste – del processo: competenze che includono anche soft skill e professionalità tanto organizzative che del lavoro creativo, e che soprattutto riguardano la capacità di coordinamento e di visione strategica.

Nella PA queste competenze sono scarse, nel mondo della consulenza tecnica sono sottostimate rispetto al primato dei servizi di ingegneria e nell’area delle università e dei centri di ricerca troppo spesso restano ostaggio di un sistema chiuso. Ci troviamo dunque su un crinale scivoloso, tra grandi piani, grandi finanziamenti, grandi e necessarie ambizioni di ripresa e rinnovamento nelle città, grandi speranze e capacità piccole, forze ridotte al minimo – anche per lo sfinimento di questo ultimo anno – e orizzonti sempre troppo corti, nelle pianificazioni delle politiche pubbliche e nell’organizzazione del lavoro per tradurle in “progetti concreti”.

Si reclutano giuristi dove servirebbero architetti o sociologhi, si affittano project manager dove servirebbe un ufficio progetti, si appaltano servizi di supporto alla progettazione dove servirebbe la progettazione. Sui rischi di un’occasione mancata nel rinnovamento della PA ci sono molte analisi e alcune proposte già pronte, come quelle del Forum Disuguaglianze e Diversità, ma di fronte allo tsunami che ragionevolmente produrrà il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – un PINQuA all’ennesima potenza – sulla filiera del lavoro progettuale serve un’idea radicalmente alternativa rispetto al modello di progetto e intervento visto fino ad ora: un’idea di rilancio del lavoro degli esperti nei ruoli di pubblico interesse.

Proviamo a pensare in grande. Che questa straordinaria opportunità apra le porte di un Laboratorio di Progetto Pubblico dentro ogni amministrazione locale, che sia una palestra per giovani architetti, urbanisti, geografi, policy designer, service designer, community organizer? Che solleciti il costituirsi di centri di competenza e apra a nuove forme di confronto e collaborazione? Che porti addirittura a riformare l’ambito degli appalti per i servizi di ingegneria e architettura, che ancora è quello a cui si ascrivono i servizi tecnici per il progetto della rigenerazione urbana? Se non è troppo aspettarsi che questa sia la vera innovazione di PINQuA, sarebbe abbastanza anche solo pensarci e cominciare a discuterne.

Nicla Dattomo è urbanista e collabora con la società KCity, occupandosi di rigenerazione urbana.

Chiara Rizzica è architetta e lavora per il Comune di Milano, Assessorato Politiche Sociali e Abitative.

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