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The Walk: le strade secondarie del teatro
Giorni fa, in un’intervista a Repubblica, il grande Werner Herzog, parlando di paesaggio, diceva a Dario Olivero: «C’è un uso commerciale del paesaggio, per esempio quello che viene utilizzato come sfondo in uno spot. Ma un paesaggio può avere un significato molto più profondo. Le immagini che lo fissano possono cambiarci prospettiva e percezione. A volte il cinema e la grande pittura possono farlo».
Al cinema e alla pittura, mi permetto di aggiungere – se il maestro creatore di Fitzcarraldo non si offende – anche il teatro. Ci pensavo, infatti, passeggiando per Roma, seguendo un’attrice, la magnetica Roberta Bosetti, durante il suo The Walk.
Si tratta, va detto, di uno spettacolo piuttosto originale.
Un piccolo gruppo di spettatori viene convocato in un luogo (a Roma era Campo de’ Fiori), e munito di auricolari dal gentilissimo staff di Le Vie dei Festival, la manifestazione curata da Natalia Di Iorio, che ospita il lavoro di Iraa Theatre. La compagnia ha una bella storia: fondata sul finire degli anni 70 dal solo Renato Cuocolo, cui si unirà Roberta Bosetti, è emigrata da Roma all’Australia, dove ottiene grande notorietà; poi esplode grazie a spettacoli sorprendenti, con successo in tutto il mondo. Iraa Theatre si fa apprezzare per la capacità insolita di portare il pubblico (anche con spettacoli per un solo spettatore alla volta) in ambienti e mondi straniati e stranianti. Utilizzando set non ortodossi (case private per una cena davvero angosciante, come in The secret Room o stanze d’albergo come per Private Eye), Cuocolo/Bosetti avvolgono il proprio pubblico in un percorso esperienziale davvero notevole. Da tempo tornati in Italia, a Vercelli (ma continuamente in tournée), Cuocolo/Bosetti hanno un approccio timido, appartato, ma non esitano a mettere in gioco autobiografia in modo aspro e morboso.
È il caso anche di The Walk, che non solo coinvolge il gruppo di spettatori in un percorso narrativo e sentimentale, ma soprattutto ha il merito di essere un cammino “spaesaggistico”: ovvero svela il paesaggio, ne fa sostanza drammaturgica, consapevolmente o casualmente. Camminare per vie meno frequentate di Roma; ascoltare in cuffia la voce suadente e calma di Roberta che racconta una sua storia privata – legata a un lutto improvviso – o che divaga inseguendo suggestioni e sollecitazioni; avvertire come “mediati”, attutiti, i rumori della strada (un motorino, due che chiacchierano e passano), crea una sublime suggestione, che rende immediatamente tutto quel che si vede elemento drammaturgico.
In qualche modo, Roma stessa – pigra e nolente come al solito – si piega, o forse si rivela, allo sguardo dello spettatore. Torno ancora all’intervista di Herzog: «È difficile da spiegare come il mondo rivela se stesso a chi viaggia a piedi (…) A volte quando cammini a lungo, il paesaggio non scompare ma adotta qualità diverse e sviluppa interi romanzi. Quando si cammina la sera e il sole cala e l’oscurità ricopre l’intero paesaggio si perde la direzione eppure si continua a tenere la strada». Dunque, camminando per The Walk (non troppo, non preoccupatevi: non ci si stanca) l’architettura, l’urbanistica, lo stesso paesaggio umano diventano teatro.
Ecco, dunque, i tavolini di Campo de’ Fiori assumere un tono mesto e dolente dietro l’aria ridanciana dell’aperitivo; ecco il lungotevere diventare un set ideale per un addio; ecco la coppietta, che si fotografa felice, far da aspro contraltare a una percezione di morte. Poi, su tutto, emerge la voce, il suono, la melodia narrante di Roberta: The Walk parla delle voci che non sentiremo più. Le voci care, conosciute, amate. La morte si avverte nell’oblio delle voci, in quel silenzio sottile, in quel fruscio di microfono che stacca, nei rumori della strada che tornano a imporsi. La vita riprende, il silenzio resta dentro.
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