Urbanistica

Ripensare l’architettura. XVIII Biennale di Architettura di Venezia

21 Maggio 2023

What is the use of a house if you haven’t got a tolerable planet to put it on?
Henry David Thoreau, Correspondence with H.G.O. Blake, 1860

 

Cos’è lo spazio? Cos’è l’architettura?
Forse dovremmo approcciarci alla XVIII Biennale di Venezia con uno spirito nuovo, cercando di immaginare una risposta a queste domande, perché, forse, quello che ci sta chiedendo la curatrice Lesley Lokko è proprio di rispondere con un atto di coraggio ad una questione basilare, fondante.
Il nostro ruolo, come architetti, è ambiguo: da un lato molti di noi sono sensibili alle più recenti istanze legate al cambiamento climatico, allo sfruttamento delle risorse, all’approccio comunitario, alle disuguaglianze di etnia, genere, nazionalità e questo ci porta ad immaginare una architettura “moderata”, che imbarca questi temi, cercando di sintetizzarli in opere che riescano a dialogare con le comunità che useranno quelle stesse opere; dall’altro lato cerchiamo di apportare un segno nel flusso della storia, un gesto personale e culturale che possa modificare il linguaggio dell’architettura e per questo siamo alla continua ricerca di chi vorrebbe finanziare quest’opera, a dispetto di (quasi) tutto.

 

Questa contrapposizione, che non dovrebbe idealmente essere tale, si scontra infatti con due limiti:
– chi avesse davvero a cuore la situazione climatica e lo sfruttamento di persone e risorse dovrebbe semplicemente smettere di lavorare nell’architettura: ogni singolo muro, ogni singola copertura, ogni singolo frammento di mondo antropizzato è oggi un danno inaccettabile per l’equilibrio del pianeta;
– chi offre un lavoro di una certa importanza e visibilità è spesso disinteressato alle questioni di cui sopra: le certificazioni LEED, per esempio, attraverso le quali si incanalano in filiere molto rigide i processi che portano alla costruzione di edifici, hanno visioni limitate, macchiniche, per lo più impiantistiche, che non si adattano alle situazioni locali, preferendo risposte internazionali, che spesso spostano il problema dello sfruttamento delle risorse nelle zone oscure del pianeta (Andrés Jaque lo ha mostrato, a Venezia, evidenziando i collegamenti “estrattivi” tra il progetto Hudson Yard a New York e i luoghi della segregazione nel sud del mondo).

La Biennale veneziana del 2023 non ci sorprende con affermazioni inedite (tutti noi sappiamo del cambiamento climatico, dello sfruttamento, etc.), ma ci mette a nudo come professionisti.
Ci mette a nudo di fronte alle responsabilità, di fronte ai nostri sogni, ai nostri desideri, di fronte al nostro narcisismo, al desiderio di essere riconosciuti, di lasciare un segno nella storia come i nostri Maestri.

Lo fa con una semplicità disarmante, che per molti può sembrare banale, ma che in fondo raggiunge con severa esattezza le due domande che aprono questo testo: non mostra l’architettura, non mostra i progetti, non mostra i media che rappresentano l’architettura, perché architettura non può esistere se si fonda sulla disuguaglianza, se si fonda sullo sfruttamento.

Parlando delle situazioni sociali, delle soluzioni comunitarie, dei piccoli lavori d’artigianato, dei traguardi quasi risibili (se confrontati col globale), Lesley Lokko vuole forse resettare la nostra disciplina, facendoci considerare il mondo intero come campo dell’architettura, ma ad un livello base, al grado zero della nostra professione: forse per questo l’allestimento lungo l’Arsenale è fatto prevalentemente di materiali leggeri, trasparenti, cavi, tessuti, come se l’architettura volesse scomparire, ritrarsi entro una zona calma di riflessione, per capire dove andare, come muoversi nuovamente.

 

In questo senso la Biennale del 2023 è costruita come contraltare e punto finale/iniziale di quella curata da Deyan Sudjic nel 2002, che dava un fondamento culturale allo sviluppo immobiliare che ci ha portato qui, oggi, dopo vent’anni, a chiederci dove abbiamo sbagliato.

 

Lokko, al contrario, ci chiede di cosa possiamo parlare se non rifondiamo l’architettura, incorporando nei processi spaziali anche i temi ambientali e sociali.

Cosa possiamo fare noi, come architetti, per evitare che l’architettura sia una disciplina che impoverisce l’ambiente e che impoverisce le persone, soprattutto quelle che non vediamo?

Certo, il compito sembrerebbe improponibile: la nostra stessa sopravvivenza si basa appunto sull’abuso delle risorse e i nostri clienti non sembrano toccati dalla questione.

 

In questo senso la Biennale è spietata, lo è quanto può essere la riflessione sulla cancel culture, lo è quanto lo sono gli attivisti del clima come extinction rebellion, come lo era il grido how dare you di Greta Thunberg nel 2019.

 

 

Con i tasti che ci abbiamo

Solo quelli suoneremo

Una melodia sdentata

Vinicio Capossela, Con i tasti che ci abbiamo, Tredici canzoni urgenti, 2023

 

 

Non abbiamo una soluzione, questa forse è la sola cosa chiara.

Ma possiamo certamente muoverci in una direzione più corretta.

 

Sicuramente non in quella mostrata da David Adjaye, vero protagonista architettonico (da un punto di vista “tradizionale”) della Biennale, che è sembrato essere parte di una appropriazione al contrario, una sorta di cultural washing, che ha di fatto reso molto meno potente la messa a nudo proposta da Lokko, ma forse nemmeno nella direzione dei bravissimi Flores i Prats (e delle loro infinite sedimentazioni di senso -e di rappresentazione- dei propri progetti/processi), di Francis Kéré o di tutti i facoltosi professionisti provenienti dai paesi non “occidentali”, ma di formazione prettamente occidentale.

In fin dei conti Adjaye non mostra altro che una pratica molto internazionale, fatta di metri cubi costruiti in ogni parte del pianeta, non differente, nei suoi processi, rispetto a quella di altre firme dell’architettura mondiali.

 

Forse dovremmo ripensare proprio ai processi, ai problemi locali, al mostrare lo spazio come luogo della conquista umana, come, in questa Biennale, abbiamo potuto apprezzare in quattro momenti:

 

– l’ingresso dell’Arsenale, con le affermazioni suggestive della curatrice, che accompagnano un allestimento cupo, spoglio, senza fronzoli, tutto focalizzato su una narrazione quasi letteraria, più che visuale.

 

Qui due punti focali raggiungono picchi poetici che riescono a calibrare questa narrazione, a darle una tangibilità emozionante e, infine, empatica: nel grande video di Rhael ‘LionHeart’ Cape, che blocca l’ingresso alla Biennale con una potenza inusuale, per niente architettonica eppure capace di sfruttare autorevolmente lo spazio esistente; nel lavoro di Liam Young The great endeavour, che ci trasporta in un futuro drammatico, sovraumano, dove l’architettura è una macchina/mondo affascinante eppure spaventosa;

 

– l’accoppiata ideale composta dal Padiglione Austriaco e dall’Unfolding Pavilion, che hanno lavorato su un tema di spazio pubblico, di risoluzione iper-locale (il rapporto fra un quartiere della città e lo spazio dell’istituzione Biennale) capace di proiettarsi su una scala globale.

In fin dei conti la curatrice Lokko, forse, non chiedeva nient’altro che questo: può l’architettura essere funzionale ad evidenziare delle problematiche e a coinvolgere la comunità di abitanti nelle possibili soluzioni, a lato di condizioni estetiche, autoriali, formali?

Può l’architettura essere funzionale ad una lotta, a costruire delle possibilità affinché le istituzioni riallaccino i rapporti con le comunità e si prendano cura delle realtà locali?

Può l’architettura essere un mezzo e non un fine all’interno delle città?

 

– il Padiglione Giapponese, che ci mostra con una dirompente sensibilità il rapporto quasi amorevole che dovremmo avere, come società, nei confronti degli edifici costruiti, esempio tangibile e prezioso dell’opera umana.

Forse unico nel ripensare ad una realtà post-Covid (completamente assente una riflessione sulla pandemia in tutta la Biennale), il padiglione del Giappone riporta l’architettura ad una avventura personale e globale di un gruppo di persone (dal curatore, all’architetto, alle maestranze) che fanno fiorire un rapporto con i luoghi, con gli agenti atmosferici, con i contesti, con le storie e la Storia, reagendo agli stessi per costruire, infine, uno spazio urbano poetico, ossia l’Architettura.

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