Ambiente
Notte, luce, architettura (the moon is a harsh mistress…)
C’è una sola parola usata per riferirsi alla luce: che sia del sole, di una lampada o di una candela. Eppure, ciò che si potrebbe definire come un intreccio tra l’ordito del colore e la trama della densità ci offre in ciascuno di quei casi un tessuto sostanzialmente diverso. Anche a voler prescindere dalle sue caratteristiche qualitative, la luce ottenuta artificialmente – con il fuoco o con l’energia elettrica – è un prodotto umano e, come tale, più facilmente manipolabile della luce solare che, sempre, in qualche modo ci sfugge e ci trascende. Possiamo certo accendere o spegnere lampade e candele ma non il sole. Ciò rende la luce artificiale uno strumento scenografico incomparabilmente duttile; e poiché la scenografia è il terreno d’azione privilegiato dell’architettura e dell’urbanistica contemporanee, ne fa l’oggetto del desiderio di ogni progettista che aspiri al successo. L’illuminotecnica è così diventata l’Eldorado dell’architetto medio. La figura del “tecnico delle luci” è nata e si è evoluta in concomitanza e in funzione della luce artificialmente prodotta: è esclusivamente con questa che si lavora in teatro ma con questa bisogna fare i conti anche nel cinema – che del teatro costituisce l’evoluzione tecnologica. Ed è proprio dal teatro che l’architettura e l’urbanistica hanno mediato la propria strumentazione scenografica. C’è una ragione se la città contemporanea – in particolare allo stadio iperattuale – è essenzialmente “città notturna” e quella ragione è squisitamente scenografica. La malleabilità della luce artificiale è infatti tale da consentire esiti teatrali del tutto inattingibili alla luce del sole. Il cinema – da Blade Runner in poi anche in proiezione futuribile, utopica o distopica – ne ha fornito esempi memorabili. Ma non è necessario ricorrere alla cinematografia, basta fare una passeggiata in una qualsiasi città, perfino di modeste proporzioni. E’ solo di notte che essa diviene, in senso proprio, “visibile”; come se il giorno fungesse oramai da stato catatonico in cui un corpo semicomatoso resti in attesa di prendere vita al tramonto. Strade e piazze, un tempo vitali quasi esclusivamente alla luce del sole, oggi assumono figura, e ne danno visibilmente atto, nel momento in cui l’illuminazione artificiale dispiega tutta la sua potenza. Le zone poco illuminate sono “tristi” quando non “malsicure” e una zona priva di cinema, ristoranti, negozi – cioè delle loro luci e delle loro insegne – è una “zona morta”, in cui non vale la pena neppure di recarsi a passeggio. La potenza scenografica della luce artificialmente prodotta consiste nel suo venir “compresa” dai manufatti umani, nella sua disponibilità a diventarne una semplice “componente” e, in conseguenza, a lasciarsene decidere – laddove invece la luce solare non può mai venir “decisa” dai manufatti umani. Nella celebre definizione di Le Corbusier (“L’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi sotto la luce”) la luce di cui si parla è quella del sole, né potrebbe essere diversamente dal momento che è essa a “decidere” dell’architettura e non viceversa – i volumi sono “sotto” la luce e non è la luce ad essere “sotto” o sulla pelle o dentro i volumi. L’avvenenza scenografica della città contemporanea consiste nella sua capacità di farsi fantasmagoria, sparendo nell’attimo stesso in cui appare. Tutto questo si riflette, letteralmente, perfino all’interno delle abitazioni. Un’occhiata a qualsiasi rivista d’architettura o d’arredamento (“architettura d’interni” è la nuova dizione che, infatti, preferibilmente si usa: a testimoniare come ciò che accade fuori deve accadere anche dentro) illustra al di là di ogni dubbio come ciò che conta non è affatto che la lampadina consenta all’abitatore di abitare, leggere, cucinare ma che la “fonte di luce” diventi, in sé, fattore “estetico” e sapientemente faccia di un interno una fantasmagoria scenografica, una rappresentazione teatrale – che sarà poi opportunamente pubblicizzata in locandina. L’architettura è sempre stata – lo è per nascita e per definizione – una forma di protezione dalla natura e, dunque, anche dalla notte che è il momento in cui la natura si fa invisibile e meno controllabile. Dall’interno dell’abitazione la notte diventava racconto e la casa ne rifletteva quietamente la trama. In quel riflesso si coglieva qualcosa che sotto il sole sfuggiva perché, di notte, anche l’architettura dormiva – ed era di notte, infatti, che talvolta la si sarebbe potuta cogliere in flagrante. Ma al tempo dell’illuminotecnica l’architettura, perennemente illuminata, non conosce più il sonno e l’insonnia, come si sa, provoca allucinazioni; per sopravvivere, necessita dosi crescenti di anfetamina illuminotecnica. La dipendenza costa cara: di notte il trucco riesce ancora a fare apparire avvenente, per quanto volgare, la tossica. Di giorno, ogni giorno che passa, essa ha sempre più l’aspetto della cubista cocainomane che si trascina da un locale all’altro per tirare a campare coi doppi turni, rimediando qualche pompino.
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