Medio Oriente
Non solo Santa Sofia: l’uso politico dell’architettura nella Turchia di Erdogan
Per gentile concessione di Giovanna Loccatelli pubblichiamo un estratto del suo libro “L’oro della Turchia”, che può essere particolarmente utile per comprendere il portato simbolico e storico della decisione di Erdogan di re-islamizzare Santa Sofia a Istanbul, nonché il contesto politico e di scelte governative in cui si inserisce.
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“İstanbul non è solo la nostra città più grande, è il nostro marchio più importante. È uno stupendo gioiello tra due mari. Può essere paragonata al Sole che illumina la Terra.” Recep Tayyip Erdoğan
La storia di un luogo rispecchia e descrive la storia del popolo che lo abita. Questo lo hanno capito molto bene sia Atatürk che Erdoğan. Se si osservano con attenzione gli spazi pubblici all’interno di una città, il loro utilizzo e la loro composizione architettonica e urbanistica, si possono cogliere trasformazioni decisive. Questi cambiamenti sono il risultato dell’evolversi della storia di una società: palazzi, strade, moschee o piazze si costituiscono come l’oggetto di una trasfigurazione simbolica da parte degli individui che ne attribuiscono valori. In questo senso, l’urbanistica è lo studio che, più di altri, aiuta a rileggere la storia, i suoi cambiamenti politici e sociali all’interno di una determinata società. Partendo da questo presupposto, Piazza Taksim e Gezi Park prima – come Santa Sofia oggi – risultano essere luoghi fondamentali all’interno del tessuto urbano di Istanbul.
[…]Così come Atatürk, anche Recep Tayyip Erdoğan capì fin da subito che il suo potere e l’eredità del suo impero passavano – e passano- innanzitutto attraverso le trasformazioni fisiche concentrate nella capitale economica del paese. Il governo Akp avanzò, agli inizi degli anni Duemila, nuove proposte di rigenerazione urbana con l’intento di dare un nuovo significato a attribuire nuovi valori allo spazio pubblico più importante e sentito della metropoli. I piani di rigenerazione urbana proposti dal partito Akp sono un’esemplificazione delle importanti trasformazioni in atto nello stato turco odierno e gli spazi urbani sono nuovamente il riflesso tangibile di tale cambiamento.
L’urbanista e geografo Marcel Roncayolo afferma che la politiké, ovvero ciò che attiene alla polis, assume forma materiale nello spazio urbano, catalizzando nei suoi confini le funzioni, i ruoli e i significati del “fatto politico”. Rileggendo i cambiamenti avvenuti all’interno del tessuto urbano di İstanbul è possibile rintracciare i fatti politici che hanno contribuito a plasmare la società turca odierna. Dunque, è innegabile che ci sia un rapporto reciproco, di mutuo scambio fra urbanistica e politica.
[…] L’implementazione dei luoghi di incontro, il miglioramento della rete di trasporti ma anche la conservazione dei monumenti storici che aiutano a ricordare e accettare il proprio passato sono strumenti fondamentali per la creazione di una coscienza sociale e politica della popolazione. Cambiare l’assetto urbano di una città comporta il cambiamento delle abitudini dei suoi cittadini. Non a caso i grandi uomini della Turchia hanno sempre parlato di modernizzazione della nazione partendo dalla modernizzazione della città. Oggi, attraversando piazza Taksim e Gezi Park, si possono scorgere giovani che si incontrano, leggono un libro o semplicemente passeggiano ma è più difficile individuare qualcuno che consumi alcolici in pubblico rispetto a qualche anno fa. Moderni e mastodontici alberghi si affacciano sulla piazza e allo stesso tempo si possono attraversare mercatini o incontrare venditori ambulanti di prodotti tipici turchi. E poi la presenza di una nuova moschea che simboleggia il reinserimento della religione nella sfera pubblica della società turca. L’islam, “materialmente” eliminato da questa piazza per lungo tempo, ora si ritaglia uno spazio al suo interno, come all’interno della nazione (e un discorso analogo vale per Santa Sofia).
L’idea di Recep Tayyip Erdoğan di demolire l’Akm, il Centro culturale Atatürk, non è una scelta architettonica e urbanistica astratta, ma vuole essere un chiaro messaggio che illustri quale storia si debba rievocare e quale dimenticare. Lo studio dell’urbanistica può essere un’utile lente non solo per comprendere la storia di una società ma anche per capire come essa si stia evolvendo a livello sociale, politico ed economico.
[…] Bisogna spiegare la visione strategica che il governo Akp aveva –ed ha– nei confronti dei luoghi-simbolo di İstanbul. Una visione politica con due componenti principali: una basata sulle politiche neoliberiste e di trasformazione della città, la seconda riguardava le inclinazioni ideologiche islamiste del governo. Entrambe queste componenti trovavano le loro radici nel decennio precedente sotto la crescente pressione della globalizzazione. Entrambe necessarie per la propaganda politica del leader turco. Una visione che si è materializzata nei 4 progetti sopracitati: la pedonalizzazione della piazza con la riorganizzazione del traffico sotterraneo, la demolizione dell’Atatürk Cultural Center, la costruzione di una moschea e la ricostruzione della caserma di artiglieria Barracks per fini commerciali. Quattro opere che vanno analizzate per capirne la portata simbolica. A queste si può aggiungere oggi la conversione a moschea di Santa Sofia
Durante la campagna elettorale del 2011, Erdoğan dichiarò di voler realizzare la pedonalizzazione di Piazza Taksim. A seguito delle elezioni, il progetto è stato approvato velocemente, trascurando le obiezioni e le proteste sollevate da varie organizzazioni. La costruzione iniziò nel 2012. Si formò così la Piattaforma per la solidarietà di Taksim. Un’organizzazione in cui gli ambientalisti giocarono un ruolo fondamentale: fu proprio questa piattaforma a opporsi inizialmente all’arrivo delle ruspe nei giorni di Gezi Park. E sarebbe poi diventata il corpo organizzativo principale nelle proteste del 2013. Oggi il progetto di pedonalizzazione della piazza è realtà.
Il centro culturale di İstanbul rappresentava un perfetto esempio di architettura modernista degli anni Cinquanta. Per decenni, punto di riferimento delle élite turche. Nel 1970 fu distrutto da un incendio e ci vollero otto anni per rimetterlo apposto. Fu poi riaperto nel 1978 e rinominato Centro culturale Atatürk (Akm). L’edificio rappresentava un simbolo ostile nell’immaginario islamico: per alcuni richiamava all’arte classica occidentale e quindi era visto come un strumento dell’autoritarismo repubblicano. Il più serio tentativo di abbatterlo è stato effettuato dal ministro della Cultura nel 2005, durante il primo governo Erdoğan. Questo tentativo fu bloccato perché, nel frattempo, il complesso era stato registrato come patrimonio culturale del paese. Fu ristrutturato nel 2008; con l’inizio degli scontri a piazza Taksim, Erdoğan annunciò che l’edificio sarebbe stato demolito e sostituito con un teatro dell’opera, progettato con un diverso stile architettonico.
Secondo la Camera degli Architetti «la demolizione rientra nelle fila degli attacchi sistematici agli edifici-simbolo dell’erarepubblicana». Durante le proteste di Gezi Park, la struttura era stata occupata dai manifestanti che l’avevano coperta con bandiere e striscioni di protesta contro Erdoğan. Oggi il nuovo palazzo dell’opera voluto dal presidente turco è realtà.
Un’altra componente fondamentale secondo la visone del governo islamico-conservatore era la costruzione di una moschea. Anche quest’ultimo progetto fu messo nell’Agenda pubblica del governo dopo le elezioni del 2011. Situata nella parte opposta rispetto al teatro dell’opera e nelle vicinanze di İstiklal Caddesi, è stata oggetto di forti critiche da parte delle opposizioni che però non sono state abbastanza forti da impedirne la realizzazione. Anche in questa circostanza, nulla è stato lasciato al caso e i dettagli si riempiono di profondo significato: per esempio, la cupola della moschea, con i suoi 30 metri di altezza, mette l’edificio allo stesso livello di due storiche chiese presenti nella zona. Tranne la distruzione di Gezi Park, gli annunci del 2011 si sono trasformati tutti in realtà.
Questi progetti, voluti fortemente dall’Akp, vedono il centro città come uno spazio unicamente dedito al consumo; e dove i luoghi pubblici sono rigorosamente controllati. Si dà una connotazione politica anche al tipo di architettura presente, tanto da farla diventare un marchio che serve a pubblicizzare lo spazio pubblico. Le parole d’ordine devono essere: consumo, merce, turismo, rimanendo sempre legati ai valori islamico-conservatori della Turchia. È stato Guy Debord, scrivendo dell’effetto che il turismo ha nello spazio, a sostenere che il modo di produzione capitalistico produce uno spazio unificato e omogeneizzato. E come risultato si ha un appiattimento e una banalizzazione dei luoghi. Le diversità socio-spaziali contenute all’interno di piazza Taksim – in cui pedoni e macchine creavano insieme un ambiente dinamico – sono state distrutte e appiattite dalla pedonalizzazione e da una vasta superficie di cemento. Questa immagine può essere vista in relazione con quello che Lefebvre chiamava “un luogo astratto”. L’architettura diventa così iperpoliticizzata: si trasforma in uno strumento per riprodurre l’ideologia attraverso la distorsione ideologica della storia. Lo scopo finale rimane quello di vendere una metropoli e al tempo stesso controllarla più possibile.
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