Urbanistica
Maurizio Cilli: l’Architettura non sempre è indispensabile
Maurizio Cilli è architetto, artista e curatore d’arte pubblica. Rivolge la propria ricerca verso lo studio dei fenomeni di trasformazione dei territori antropizzati e urbani, sperimentando interventi di interpretazione attraverso i linguaggi espressivi propri del contemporaneo. Tra i fondatori nel 1993 del collettivo Città Svelata, impegnato in progetti rivolti alla qualità dello spazio pubblico. Conduce attività didattiche e workshop sui temi della Cultura del Progetto, dell’Abitare e l’applicazione delle Arti Civiche come pratiche nei processi generativi urbani e territoriali. Ha curato con Stefano Mirti le edizioni 2020 e 2022 dell Festival di Architettura BOTTOM UP! Quando la città si trasforma dal basso, promosso dalla Fondazione per l’Architettura di Torino.
Lontano dal voler essere il concentrato della sostanza di significati necessari alla soluzione di un pharmaka capace di curare il grave stato di salute dell’Architettura – oggi la più incompresa e dimenticata delle arti – questo mio contributo va inteso come null’altro che una riflessione personale e come tale il risultato del mio individuale e irregolare impegno professionale di architetto. Credere che il mio radicale quanto eccentrico percorso di sperimentazione offra l’illusione di possibili soluzioni salvifiche, risulterebbe un goffo esercizio di presunzione, tuttavia, credo possibile che, almeno in parte, alcune di queste mie riflessioni risultino opportune e di qualche aiuto alla comprensione del senso della mia esperienza di lavoro.
Se si accetta che l’Architettura è disciplina fra le arti che studia, attraverso il progetto, il processo con il quale costruire la separazione di uno spazio protetto dallo spazio caotico, occorre riconoscere, data la moltitudine di complessità sociali che investono e rendono ardua e frustrante l’interpretazione dei fenomeni urbani contemporanei, un dato inconfutabile: la marginalità e in molti casi, l’irrilevanza di una certa figura dell’architetto incapace di affermare null’altro che il proprio personalismo attraverso un’ottusa presunzione di onnipotenza.
L’Architettura non sempre è indispensabile.
Diventa disciplina preziosa, di mediazione e raccordo, in modo particolare nei casi in cui le scienze sociali siano coinvolte nell’osservazione e interpretazione della natura complessa dei contesti urbanizzati contemporanei. Escludendo da questa analisi il paesaggio debolmente antropizzato vorrei qui concentrarmi sulle città e sui loro territori di influenza, materia sulla quale si è principalmente concentrata, negli ultimi trent’anni, la mia ricerca.
La città, secondo il suo modello classico di affermazione è il luogo in cui prende forma, pervade e coagula, nel bene e nel male, il desiderio di abitare di gran parte del genere umano. Un campo di opportunità straordinarie nella fragile cornice in cui è necessario stabilire la convivenza dell’intimità privata dello spazio abitato, la Casa, il Tempio, la Fabbrica: il pieno, con l’immaginario dell’invisibilità emotiva dei sentimenti, la Strada, la Piazza, il Giardino, il Parco: il vuoto.
Ma se a questo modello classico sovrapponiamo il tessuto antropizzato nella dimensione metropolitana della città contemporanea, al fragile scenario di convivenza fra architetture, spazi interstiziali, grandi e piccole pause, rileviamo un mediocre catalogo di ambiti generalmente privi di identità e di relazioni gerarchiche nell’organizzazione degli spazi. Un ambiente frammentato in continua modificazione, diverso e simile per ognuna delle aeree metropolitane, nel quale è possibile riconoscere, quale cifra costitutiva, l’esclusivo sovrapporsi di architetture incrementali, superfetazioni e contenitori onnivori. Territori attraversabili perlopiù a bordo di veicoli e feriti dai nastri e dagli svincoli delle tangenziali, orfani di una regia organica e dalla cui dilatazione dipende la continua erosione di paesaggio agricolo.
Siamo testimoni di un tempo in cui pare smarrita la volontà di affermare i valori della cultura della città, viviamo la conclamata e diffusa dissipazione e disgregazione delle nostre società urbane che allentate nelle connessioni e logorate nei nodi, escludono e separano dalla vita culturale, dagli scambi economici e dalle relazioni istituzionali. Comunemente percepiti come incomodi e alienanti luoghi dell’abbandono, principali cause del disagio dello smarrimento e dell’instabilità, queste arene votate alle categorie del conflitto nemiche dell’integrazione, inducono ad alimentare le forme diffuse di quel rancore all’origine di una demagogia dell’insicurezza. Accettiamo, senza riconoscerci colpe, di vivere a contatto e ignorare lande di città in cui si concentra la disperazione di individui privati di un plausibile futuro e nelle quali, in mancanza di urgenti strumenti politici, risulta sempre più difficile identificare e difendere le rare nervature di energia vitale.
Sull’osservazione di questo perverso dominio di alterità concentro da lungo tempo la mia osservazione e la mia ricerca, riluttante verso ogni grado di semplificazione, rammendo e cucitura, da parte, soprattutto, delle politiche urbane che in mancanza di codici vengono meno all’introduzione di robusti strumenti, anche più elementari, di interpretazione di questi fenomeni. A pagarne le spese è il progressivo e colpevole impoverimento del linguaggio della politica e degli architetti, nel permanere antistorico della generalizzata definizione di tutto e di niente che è periferia, causa di ogni male.
Definizione colpevole del radicarsi di una sostanziale perdita di identificabilità delle parti che – per differenza – compongono la città contemporanea nel suo insieme, con il conseguente risultato che tanto più i brani aulici dei centri storici diventano teatro di vanità delle amministrazioni, tanto più si perde contatto e sensibilità verso ciò che gli sta intorno e dei cittadini che vi abitano. Sintomo conclamato, questo, di una condizione culturale incapace di affermare i codici di interpretazione di ciò che è stata, nel bene e soprattutto nel male, la costruzione del paesaggio urbano della seconda metà del Novecento.
Queste geografie eterogenee attraggono da tempo la mia curiosità e la loro osservazione da vicino, secondo una pratica di prossimità, mi hanno condotto a credere che oltre all’urgente necessità di interpretazione e racconto sia indispensabile, ricercare nuovi posizionamenti dello sguardo per individuare, al loro interno, gli spazi di potenziale rappresentazione di una vocazione pubblica. Sono, solitamente, spazi in sonno e speciali sui quali converge l’intreccio occasionale di flussi e un vivido riverbero di una volontà manifesta da parte dei cittadini di abitarli e condensare su di essi i comportamenti tipici dei piaceri dell’ozio, dell’incontro, del gioco e dello scambio di una comunità.
Della scoperta di questi vampi di latente potenzialità generativa si nutre il mio lavoro, alla ricerca, di volta in volta, dell’artefice magico capace di concretizzare il desiderio dell’esperienza esistenziale di una comunità. Interpretare con il progetto, a partire da un’architettura sociale prima che fisica, le complesse implicazioni simboliche e psichiche che animano il misterioso legame fra gli individui e il loro specifico contesto di affezione. Si tratta, in primo luogo, di interpretare i segni del linguaggio di questi campi aperti dell’attesa, dare cittadinanza ai fattori consci e inconsci di un immaginario simbolico condiviso anche lì dove le città esprimono linguaggi formali meno confortanti. Il progetto nel dispiegare il suo processo sancisce un rapporto di reciprocità che unisce indissolubilmente ed emancipa la comunità al rango di una committenza consapevole. In questo processo l’architetto riveste un ruolo di mediazione essenziale nell’interpretare e affermare i primati del desiderio sul bisogno e del simbolico sullo spazio. Sul piano percettivo giocano un ruolo decisivo le capacità del progetto di risignificare l’espressività del luogo attraverso la simbolizzazione dello spazio pubblico come contesto abilitante. Sul piano della coesione di intenti di una specifica comunità sono determinanti la qualità delle relazioni e dello scambio, variabili direttamente connesse alla costruzione di un’architettura sociale stabile e inclusiva. Qui la stabilità di visione della comunità dipende dalla capacità del progetto di esprimere le proprie qualità generative e un grado di apertura continuamente rinegoziabile. Più che attraverso un percorso partecipato strutturato di tipo verticale può risultare avvincente sperimentare il radicamento di un soggetto collettivo ibrido di condivisione dal basso rivolto ad azioni locali specifiche, animate dal principio di costruire una visione stabile di futuro per armare di voce e forma l’attitudine desiderante di chi li abita.
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