Scienze
Lina Bo Bardi, Gilberto Gil e Pierre Verger: una storia di culture-crossing
Del lavoro di Lina Bo Bardi (1914-1992), la più importante architetto donna del ‘900, stiamo recuperando memoria grazie alle iniziative in occasione del centenario della nascita: dalla importante monografia scritta da Zeuler Lima per Yale University Press; alle mostre di San Paolo Maneiras de Expor: Arquitetura expositiva de Lina Bo Bardi curata da Giancarlo Latorraca al MCB, A Arquitetura Politica de Lina Bo Bardi curata da André Vainer e Marcelo Ferraz e Lina gráfica a cura di João Bandeira e Ana Avelar, entrambe al SESC-Pompeia; Lina em Casa: Percursos curata da Renato Anelli e Anna Carboncini alla Casa de Vidro. E inoltre 3 Sites – Lina Bo Bardi al Johan Jacobs Museum di Zurigo; Lina Bo Bardi 100-Brazil’s Alternative Path To Modernism a cura di Vera Simone Bader all’Architekturmuseum TU-München; Lina Bo Bardi in Italia a cura di Margherita Guccione con Sarah Catalano ed Ernesta Gaviola al MAXXI di Roma; Lina Bo Bardi: Together mostra itinerante da qualche anno, a cura di Noemí Blager; più alcuni simposi tra i quali Lina bo Bardi (1914-2014) Una architetta romana in Brasile a cura di Francesca R.Castelli e Alessandra Criconia e convegni come “Centenàrio Lina Bo Bardi” a Salvador da Bahia, organizzato da Ana Carolina Bierrenbach e Carla Zoellinger. Oltre al documentario Precise Poetry/Lina Bo Bardi’s Architecture di Belinda Rukschcio e al nostro progetto “Lina e Pierre – Vite parallele” di cui qui, con relativa piattaforma social LinaProject.
Di formazione accademica romana, trasferitasi a Milano per lavorare da/con Gio Ponti (Domus etc.), dopo aver aderito – secondo autobiografica e controversa nota – al Partito Comunista e alla guerra di liberazione, nel 1946 Lina sposa Pietro Maria Bardi, gallerista ed intellettuale già organico al regime fascista. Insieme a Bardi, Lina viaggia verso il Brasile – sorta di emigranti di lusso. Dal 1951 l’architetta assume cittadinanza brasiliana, abitando a San Paolo e costruendo la famosa e bellissima Casa de Vidro. Dal 1959 al 1964 si sposta per lavoro a Salvador da Bahia, chiamata dal Governatore dello Stato a dirigere il costruendo Museo d’Arte Moderna da Bahia. Così entra in contatto con i numerosi artisti oriundi o locals (tra i quali lo scenografo Martin Gonçalves, il compositore Koellreutter, il giovane Glauber Rocha etc.) riuniti da Edgar Santos, rettore dell’Università fino al 1961, per collaborare alla formazione di una nuova classe dirigente che – grazie alla scoperta di giacimenti petroliferi in zona – sarebbe cresciuta ad avrebbe arricchito di contemporaneo sapere quella terra, storicamente punto di approdo degli schiavi dall’Africa. In circa quattro anni, con un ritmo incredibile, a Salvador Lina allestisce un centinaio di mostre nel foyer del Teatro Castro Alves, incrociando soprattutto temi legati alla cultura materiale e popolare: una faccenda al tempo assai poco à la page, una strada marginale rispetto alla via brasiliana al Moderno di derivazione europea che lei stessa aveva praticato a San Paolo – e che era diventato nel frattempo il vessillo del Brasile in costruzione, dal talento di Niemeyer a quello di Burle Marx, lunghissima eco dell’incursione sudamericana di Le Corbusier del 1929.
Dopodichè, black-out: nel ventennio di dittatura militare Lina torna a San Paolo e porta a termine il MASP-Museo d’Arte di San Paolo, la scatola di vetro sospesa sul paesaggio che viene inaugurata nel 1968 alla presenza della Regina di Inghilterra. In effetti un museo di arte Occidentale, quindi con intrinseca visione euro-coloniale della cosa – grazie alla collezione messa insieme dal marito, Pietro, che ne è direttore. Sponsor è un altro personaggio assai peculiare, l’editore Assis de Chateaubriand – la vulgata narra perfino di donazioni di opere per la collezione del MASP ottenute in cambio di mancata diffusione a stampa di dossier altrimenti sconvenienti per i donatori. L’involucro del MASP è modernista – uno spazio continuo schiacciato tra pavimento e solaio, vetrato sui lati, in sorprendente analogia con il foyer del Teatro Castro Alves di Salvador; ma l’allestimento museale – che finalmente il nuovo direttore Adriano Pedrosa ha in programma di rimettere in auge – fa tesoro della sperimentazione condotta e passa alla storia proponendo una fruizione “libera” e non gerarchizzata delle opere, che vengono montate su cavalletti-espositori trasparenti, ognuno con scheda esplicativa a tergo.
Tutto ciò nel momento storico in cui due brasiliani importanti, Gilberto Gil e Caetano Veloso (entrambi nati nel 1942, quindi ventiseienni) vivono da rifugiati a Londra, per motivi politici.
Nel frattempo Pierre Verger (1902-1996), prima fotografo e poi etnografo francese di nascita, già incontrato da Lina alla corte del rettore Edgar Santos, prende casa a Salvador da Bahia, vivendo alternativamente tra Africa e Brasile appunto per studiare i riti ed i costumi portati in Brasile dagli schiavi delle coste d’Africa. Ancora, una non banale scelta di vita, diversa dalla ricerca a tempo praticata dai migliori antropologi delle varie scuole europee.
Appena caduto il regime militare, nel 1985 Gilberto Gil assume il ruolo di presidente della Fondazione Gregorio do Mattos, che a Salvador da Bahia svolge il compito di Assessorato alla cultura; e subito incarica Lina Bo Bardi e Pierre “Fatumbi” Verger – già iniziato ai riti del Candomblé – di lavorare insieme per realizzare due musei che leghino Africa e Brasile attraverso il racconto della rotta degli schiavi. Il mandato che Gil affida all’architetta e al curatore – entrambi nati e formatisi in Europa – è dichiaratamente verso un progetto “irritante rispetto all’eurocentrismo dominante”; i luoghi sono Salvador da Bahia per la Casa do Benin ed Ouidah, Benin, per la Maison du Bresil.
Quando, scorso luglio, preparando le riprese realizzate per il progetto “Lina e Pierre: due musei tra Africa e Brasile” ho potuto chiedere a Gilberto Gil come mai avesse scelto Lina e Pierre per quel progetto, la risposta è stata del tipo “Non ho fatto una scelta, erano semplicemente le persone più adatte per quel lavoro”. Naturalmente il concetto non era così banalizzato: il viso, la voce e le mani di Gilberto Gil come appaiono in quei fotogrammi consegnano alla storia il suo ruolo di artista ed intellettuale impegnato – figura con rarissimi eguali oggi nel mondo – e bastano per un film intero. Il quale film, concettualmente, potrebbe essere cominciato in Europa nel 1959, con l’Orfeu Negro di Marcel Camus che vince a sorpresa a Cannes – in tempi di Cinéma Nôvo in Brasile. Per proseguire a suo modo con il Vicerè di Ouidah, pubblicato dall’anima errante di Bruce Chatwin nel 1980 al fine di raccontare la storia della tratta degli schiavi che appunto da Ouidah (Benin) partivano per arrivare a Salvador da Bahia; romanzo diventato film col titolo di Cobra Verde per mente di Werner Herzog e faccia di Klaus Kinski, nel 1987.
Fino a À la Recherche d’Orfeu Negro (2005) documentario francese che tenta a suo modo di serrare il cerchio tra Africa e Brasile.
Per caso, dopo l’esperienza di lavoro a Salvador da Bahia, Lina Bo Bardi amava ripetere che “il Brasile non è né Oriente né Occidente: è Africa.”
Mercoledì 27 maggio 2015 dalle 14,30 al Museo Marino Marini a Firenze – insieme ad Ana Araujo che ha curato Lina Bo Bardi and Gio Ponti – The Last Humanists all’Architectural Association (London) e a Vera Simone Bader curatrice di Lina Bo Bardi 100 – Brazil’s Alternative Path to Modernism all’Architekturmuseum TU München – con l’antropologo Filippo Lenzi Grillini presentiamo in pubblico ed aperto workshop questi ed altri materiali, tra i quali quelli documentari filmati da Filippo Macelloni/Nanof e Alberto Iannuzzi/Sereia Filmes, montati da Veronica Citi. Il progetto in progress – cominciato autonomamente nel 1998 ed implementato nel 2008 nell’ambito della ricerca “Site Specific Museums” per il Festival della Creatività di Firenze – offre anche la piattaforma social LinaProject (su Facebook) ed è supportato da ToscanaInContemporanea-Regione Toscana e Università di Firenze-Dipartimento di Architettura in partnership con Image, Festival dei Popoli e Lo Schermo dell’Arte, in collaborazione con MICC e CrossingLab.com.
A margine di un lavoro lungo eppure ancora parziale – solennemente aperto dalla Lectio magistralis di Zeuler Lima (Washington University in St.Louis) un anno fa – credo che per questa ricognizione sulle tracce di un complesso dialogo museale stiano emergendo alcune fertili questioni, tutt’altro che mummificabili-museificabili – volendo parafrasare Theodor W. Adorno – piuttosto di carattere esemplare ed attuale; questioni alquanto civili che riguardano ad esempio l’opportunità di ri-connettere mondi, avendo prima ben considerato le culture sui bordi.
In prospettiva, tutto ciò sembra anche additare un deplacément sostanziale rispetto al massimalismo centro-europeo e alla residuale visione politica del Mediterraneo oggi imperanti, come rispetto a privilegi e lussi ormai divenuti insostenibili che alcuni tuttavia vorrebbero conservare con la violenza, trasformando vecchi e remoti confini in nuove barriere.
Nell’immagine di copertina, Gilberto Gil – foto Fernanda Nascimento
Altri link:
http://www.ilgiornaledellarchitettura.com/articoli/2014/11/121950.html
http://www.domusweb.it/it/search.html?type=author&key=Giacomo+Pirazzoli
http://www.ilgiornaledellarchitettura.com/articoli/2015/3/123643.html
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