Ambiente
Libera Architettura in Libero Stato. I carciofi ripieni al sugo
Un’idea dei luoghi qui descritti è rappresentata in questo post su Instagram
Da queste parti il dialetto è lingua di casa in ogni casa e nessuno si stupisce per quei dialoghi ormai comuni in cui s’intreccia e riannoda in una cosa sola con l’italiano; di solito, però, accade tra persone della stessa famiglia, quando la confidenza dell’esprimersi col comodo delle proprie abitudini, poggia sulla certezza che l’altro stia intendendo. M’chel, dopo tutti questi anni, con me faceva un’eccezione e mi parlava sempre e solo in dialetto stretto, sicuro della mia comprensione e sapendo che il poco che ancora ne parlo, io lo uso esclusivamente con mia madre e solo per urgenza. Ci incontriamo ogni volta che ritorno là dove lui vive, e mai così spesso come negli ultimi tre anni ci sono tornato con la scusa delle incombenze di quella nostra casa che a mia sorella era indifferente, per la mamma ormai impossibile e per me senza speranza. Così è stato anche qualche giorno fa, quando senza preavviso, come sempre, nel chiarore di una mattina del tardo autunno al Sud, ho percorso la strada fino a dove sapevo di trovarlo. Erano stati per l’Italia i giorni delle piogge, delle frane e dello stupore inspiegabile per le cose non dette, non viste, non fatte. Oppure dette, viste e comunque non fatte. Un argomento che i cittadini di certe parti del Paese, soprattutto se ne hanno l’età, giudicano con la cautela dettata dalla cognizione dei fatti, perché loro la storia l‘hanno vista crescere da quando era ancora vita di tutti i giorni. Così era per M’chel ogni volta che parlava di quel tratto della costa garganica, “Per fortuna qui vicino al mare siamo in pianura, quindi niente di questa repubblica dell’abuso a cielo aperto potrà mai franarci addosso”, mi diceva, “ma noi che a un certo punto siamo diventati i colpevoli, non eravamo desolazione e bruttezza da sempre. A noi quando non avevamo nulla, non ci mancava niente per essere la Camargue”, aveva preso a raccontare, ricordando così uno dei suoi pochi viaggi, tutti passati a misurare i luoghi per differenza da questa unica provincia italiana in cui era nato e cresciuto. Io e M’chel eravamo diventati amici dopo una lunga conoscenza, seguita a un incontro qualsiasi nel ristorante che lui aveva aperto dopo avere dismesso la mietitrebbia e il trattore dei quali era vissuto per anni, noleggiando ai contadini della zona insieme ai propri servizi di trebbiatura e aratura meccanica. I due macchinari usati erano stati rilevati con la liquidazione della Falck, dove per ventidue anni era stato un attrezzista specializzato, prima di rientrare per sempre, una volta sistemati i figli fuori casa. Oggi si è ritirato da tempo a una irrequieta vita privata, ancora animata da un grande talento, la meccanica, e dall’unica sua passione, quella terra, un amore di cui la sua raffinata cucina era solo il tessuto connettivo e l’espressione visibile.
“La questione purtroppo è che la Camargue non la conosceva nessuno e nessuno si accorse dell’occasione che avevamo davanti: certamente non lo realizzavano i politici, ma nemmeno noi, gli emigranti. Per non parlare di quelli che sono andati avanti a vivere qua”. Continuava a parlare con la faccia rivolta al muro, intento a pulire un po’ di carciofi, mentre io seduto al tavolo alle sue spalle, facevo scorrere un polpastrello sul bordino blu dei piatti di stagno nei quali mangiava e faceva mangiare gli amici, in quel largo capanno nella campagna tra il paese e il mare, dove passava la parte diurna di tutte le sue giornate. “E di questo ha mangiato la grande desolazione che ora abbiamo laggiù”, riprese con la voce vellutata e senza sorriso, che ne rivelava la natura dolce e una nota innata di disillusione, “hanno cominciato a nutrirla i primi che hanno potuto farlo, cioè il popolino, la massa di quelli che tra gli anni settanta e novanta, hanno avuto per la prima volta un lavoro più o meno stabile e abbastanza soldi avanzati da appiccicarli in una casetta abusiva di fronte al mare”. E mentre lo diceva inarcava le sopracciglia tirando al contempo le labbra, per mimare un’espressione con cui penso volesse sottolineare il paradosso di questa constatazione. Era un vecchio comunista italiano: col tradimento dello stato ci conviveva, ma quello del popolo gli pareva uno spreco della volontà.
Passò qualche minuto in silenzio, al punto che ero incerto se alimentare il discorso con una considerazione o una domanda, oppure assecondarne la fine apparente. M’chel, infatti, aveva terminato di pulire i carciofi, si era sciacquato le mani e proprio come per cambiare argomento mi aveva chiesto, “Gerinè, a mangiare ti fermi vero? Guarda che giornata”, aveva detto indicando con il palmo della mano il fuori illuminato, che dalla porta aperta e dalle due finestre dell’unica stanza, invadeva lo spazio con l’aria cristallina di una tersa giornata di fine novembre. “Questi sono i primi, senza pretese, buoni da fare ripieni”, diceva mentre teneva alto un carciofo pulito e gocciolante e lo faceva ruotare tra le dita della mano destra, “li faccio al sugo e ce li mangiamo con la pasta”. E al contempo indicava, per mostrarmela, una ciotola nella quale la piccola massa del ripieno era pronta da prima che io arrivassi; accanto c’era poi una insalatiera di plastica piena a metà di quelli che evidentemente erano i pomodori già passati per il sugo.
Ma il discorso per M’chel era tutt’altro che terminato e in quel momento, per come a volte vanno le cose nel sentire di una persona solitaria, io devo essergli sembrato giusto per dare senso al suo raccontare: abbastanza estraneo da non conoscere appieno la storia, ma sufficientemente intimo da poterla capire. Il “laggiù”, che aveva citato con le parole di poco prima è Il Lido di Torre Mileto; una lunga spiaggia che si estende per chilometri nell’area compresa tra il mare Adriatico e due laghi salati: Il Lago di Lesina a ovest e il Lago Varano a est. Il lido vero e proprio, comincia con la torre saracena recentemente ristrutturata, da cui prende il nome tutta l’area e termina in prossimità della Foce Schiapparo, dove un breve canale collega il lago di Lesina al mare. All’epoca in cui sulla costa per turismo non ci andava nessuno, Torre Mileto, come chiamano qui la spiaggia, ha continuato a essere una striscia infinita di chiarissima sabbia fine, mossa dalla successione di dune che separavano il mare dalla campagna, dove un campo di grano seguiva l’altro, interrotti solo da altrettanto infinite colture di pomodori e poi, in misura minore, uliveti, barbabietole e ortaggi. “Molti di quelli che vivevano nei paesi intorno al lido, in quei primi anni dei miei ricordi divennero adulti senza nemmeno averlo visto il mare”, aveva sottolineato con un inciso M’chel, a cui avevo risposto confermando che era vero, perché, “così, per esempio, accadde a mia madre, nata come sai sul finire degli anni Trenta, che vide il mare per la prima volta a 25 anni, pur vivendo in un paese a soli diciotto chilometri e benché fosse stata accolta in una famiglia di contadini, che di giorno coltivavano campi che da Torre Mileto di chilometri ne distavano solo tre.” Negli anni Settanta i benestanti della zona, parliamo di benessere minimo, quello di chi ha smesso di vivere alla giornata, e gli emigranti di ritorno dal Nord Italia, dalla Svizzera e dalla Germania per passare nei paesi qualche settimana d’estate, cominciarono a farsi sedurre da quella nuova prospettiva: andare al mare e avere una casetta di una o due stanze dove stare, nonostante quelli che oggi considereremmo disagi indicibili, mancando qualsiasi servizio di urbanizzazione. Ma loro, quasi mai ci dormivano la notte perché tornavano nelle case in paese e molti addirittura si fermavano solo fino all’ora di pranzo. Per costruire non veniva seguita alcuna regola, perché non c’erano regole da seguire se non il divieto di farlo. Ma il sistema che prese piede era un incastro di pezzi fatto di procedimenti amministrativi, lassismo e rapacità collettiva, e una volta stabilito il meccanismo, la grande macchina divenne inarrestabile, molti si fecero prendere la mano e le due stanze diventarono tre o quattro, con terrazze e verande, gli edifici a un piano crescevano in altezza mentre ne spuntavano di nuovi già pensati per essere su più livelli. La terra demaniale diventava privata semplicemente costruendoci sopra edifici progettati a matita su un pezzo di carta e quello che ne risultava veniva anche venduto, ovviamente in transazioni irregolari, senza registrazioni all’inesistente catasto, atti notarili né altre formalità ufficiali. Dopo i primi anni la procedura si complicò un pò, ma non tanto da arrestare questo che più che un sistema, era una nuova consuetudine sociale, tanto si era diffusa. Chi ne aveva l’opportunità, cominciava infatti a costruire nella speranza di arrivare rapidamento a stendere un tetto sull’immobile, prima che i lavori fossero bloccati e il cantiere messo sotto sequestro dalle autorità competenti. La questione del tetto era una preoccupazione di buon senso edilizio, dettata dal bisogno di riparare dalle intemperie l’edificio grezzo e il suo interno, nei mesi in cui si sapeva che sarebbe stato inagibile per il sequestro. E sarebbero stati mesi invernali, perché i lavori venivano avviati sempre tra settembre e ottobre, nella speranza, giustizia permettendo, di godere della casa l’estate successiva. “Con giustizia permettendo non voglio dire giustizia che fa giustizia e ferma tutto per sempre”, sottolineò M’chel alzando la voce, “intendo dire giustizia che fa il suo corso e condanna nel più breve tempo possibile, perché poi tutto possa andare avanti”. Si raccontava di case erette in una notte da intere squadre di manovali che alzavano i muri perimetrali e li coprivano prima dell’arrivo immancabile della pattuglia, il cui ritardo di uno o due giorni qualcuno sapeva concordare. Altri usavano l’espediente di costruire una baracca di legno, costruzione concessa in quanto rimovibile, per poi cominciare a realizzare i muri dall’interno: una tecnica più dispendiosa, che dava qualche vantaggio in termini di tempo, ma portava allo stesso risultato. Comunque ci si arrivasse, al sequestro dell’immobile seguiva un periodo di tempo variabile, da pochi mesi a un anno, trascorso il quale l’imputato, di solito la moglie della famiglia, veniva condannato dal pretore a una pena in denaro, pagata la quale l’immobile veniva rilasciato pur restando sospeso e pendente il reato commesso. In pratica la condanna e relativa ammenda non erano una sanatoria, bensì la via per arrivare al dissequestro per chi costruiva e un’occasione per lo Stato di incassare. E questo era tutto, perchè da lì in avanti il possesso con relativo godimento, ristrutturazioni e compravendite proseguiva per decenni e tuttora persiste. Raramente un’autorità si ripresentava una seconda volta.
E mentre questo accadeva andava avanti anche la disputa, inizialmente una questione di irrilevante campanilismo, tra i comuni di Lesina e Sannicandro circa il confine tra i due territori. Un alterco amministrativo diventato però anche lui importante con la crescita di quella città abusiva, perché tracciare la linea corretta significava definire l’autorità comunale responsabile per Torre Mileto, per molte delle decisioni relative alle irregolarità, tra cui gli atti per arrivare all’abbattimento degli abusi, o eventualmente per la messa a disposizione dei servizi necessari a una comunità che d’estate raggiungeva le decine di migliaia di abitanti. “Ma quann’ma l’ha vist ca un ca ‘vve vutat, va a sdurrupà i cas di quidd che l’hann dat u post?” (trad. “Ma quando mai si è visto che uno che viene votato, va a demolire le case di quelli che gli hanno dato il posto?”), ha esclamato forte in quel momento del racconto M’chel, che con le dita della mano destra raccolte a punta, muoveva l’avambraccio avanti e indietro in un gesto tipico di quelle parti che stava a significare dubbio, incredulità. Questioni, queste che riascoltavo, che mi erano note, essendo storie vissute dalla mia famiglia e sentite fino dall’infanzia; vicende risapute, intorno alle quali è fiorita senza far prosperare nessuno un’economia di legittimi opportunismi e opachi non detti, che vanno dalla manutenzione alla vigilanza, dalla vendita ambulante alla ristorazione. Soprattutto questioni alla luce del sole: facili da vedere, facili da trovare, disseminate lungo un pezzo della favolosa Italia, percorso da una strada sterrata edificata a destra e a sinistra, con migliaia di case prive di fondamenta, quasi sempre senza gli allacci alla corrente elettrica, al servizio idrico e senza fognature.
Poi, mentre il sugo coi carciofi era ormai pronto e la pasta cuoceva, M’chel completamente rasserenato canticchiava Bang Bang, ma solo per il tempo di un paio di parole che continuava a ripetere, “Seasons came and changed the time…” Seguite dall’epilogo in italiano della sua storia triste “emmò che i giorni gloriosi sono andati, di emigranti che tornano d’estate a sto paese di braccianti non ce ne sono più e molte case e baracche sono vuote pure in agosto e tutte insieme sono la fotografia di quand simm’ stat strunz”. E poi concluse, “oggi come oggi, quando passano lungo la SP41 anche quelli col camper proseguono senza fermarsi più”.
Il Sugo coi Carciofi ripieni
Ingredienti per 4 persone. 4 carciofi del tipo di quelli sardi, non necessariamente bellissimi, 150 g di pecorino da grattugiare, 1 uovo, 400 grammi di pane morbido oppure altrettanta parte interna di un pane con la buccia, mezzo bicchiere di latte (al latte si può sostituire la panna), due barattoli di pomodori pelati, prezzemolo fresco, aglio, sale, pepe, olio extra vergine di oliva e per l’emergenza un poco di pangrattato.
Procedimento. Il numero dei carciofi deve riflettere il diametro della pentola, cioè essere tale per cui si possano sostenere a vicenda mentre cuociono nel sugo. Io considero verosimile mangiare un carciofo a testa. La preparazione si può utilmente distinguere in tre parti che precedono la vera e propria cottura. Suona complicato, ma per chi ha un poco di cultura di cucina, avverte cioè quel piacere e quella voglia di stare lì a fare cose per e con qualcuno, complicato non lo è.
Prima parte, il ripieno. In una ciotola metto il pane ridotto a piccoli pezzi (non macinato), prima immerso per dieci minuti nel latte e successivamente strizzato. Poi unisco l’uovo, il pecorino, pepe sbriciolato a piacere, un pizzico di sale e un cucchiaio colmo di prezzemolo tritato con la mezzaluna. Impasto tutto e poi assaggio, se ritengo di aggiungere sale o pepe lo faccio a questo punto. L’impasto deve essere solido, ma morbido, cioè non liquido. Tanto per intenderci sulla consistenza, deve essere meno denso di quanto servirebbe a farci delle polpette, se questo fosse l’intento, ma avere una corporeità che senza disperdersi perchè troppo liquida, possa essere messa all’interno di un qualcosa tutto sommato delicato come un carciofo. Pertanto, benché in genere non accada, qualora il risultato dell’impastare con le dosi suggerite fosse troppo compatto si può aggiungere un po’ di latte, nel caso contrario e cioè troppo liquido, è possibile correggere con un poco di pangrattato.
Seconda parte, preparazione e riempimento dei carciofi. Per la pulizia, è inutile spiegare una cosa che tutti possono imparare su Internet. Ci sono però piccole attenzioni da avere nel caso specifico. La prima è di rendere piatta la base, eliminando con cura il gambo, poiché dovranno poter poggiare e restare eretti nella pentola del sugo. La seconda e più comune avvertenza è di eliminare tutte le foglie esterne dure, anche quelle solo un poco fibrose; le punte con le spine; la barba eventuale sulla base interna del frutto. Il carciofo così pulito deve essere poi “scompattato”, cioè aperto senza romperlo, al fine di essere riempito: personalmente lo appoggio tra indice e medio delle due mani sovrapposti, mentre i pollici facendo avanti e indietro, lavorano delicatamente la parte superiore (il bordo tagliato delle brattee) e in pochi secondi il carciofo sarà aperto a sufficienza da potere accogliere il ripieno. A questo punto lo aggiungo progressivamente con le mani, riempiendo sia la cavità centrale, sia lo spazio tra le brattee e spingo delicatamente con le dita fino a che non ce ne sta più e si va formando una leggera convessità. E’ tanto importante pulire bene il carciofo, quanto occupare con il ripieno tutto lo spazio possibile senza forzare, perchè i carciofi così fatti sono un godimento e quando il ripieno è decisamente presente, il godimento è grandissimo. Questo dipende dal fatto che il carciofo ripieno si dovrebbe mangiare come una cosa sola, cioè come fosse un grosso Babà o un unico pezzo di filetto. Quindi l’ideale non è una preparazione dove nel piatto si eliminano parti non gradite o si staccano foglie dure, ma una combinazione che si taglia a pezzi e si mangia a bocconi interi.
Terza parte, il Sugo di pomodoro. I pelati devono essere passati con un passaverdure oppure con un mixer e poi, per i puristi, attraverso la chinoise per separare bucce e semi dalla polpa. Vanno bene anche 1 kg di perini fatti a cubetti, quando ci sono, nel qual caso vanno cotti prima e poi passati.
Quarta parte, la cottura. Metto un filo di olio in una padella antiaderente, accendo a fuoco moderato e dispongo i carciofi al contrario, cioè col ripieno verso il basso, poi li smuovo per qualche secondo, spostandoli uno a uno, in modo da far rapprendere la parte superiore del ripieno, senza che però si attacchi al fondo della padella portando con sè l’interno. Al termine dell’operazione, che durerà un minuto circa, in una casseruola faccio imbiondire uno spicchio d’aglio in un po’ d’olio, aggiungo il pomodoro passato in maniera che non superi l’altezza del carciofo e quindi appoggio al suo interno i carciofi con la base verso il basso: quindi l’opposto di quanto fatto precedentemente. Che siano quattro o sei o di più, devono essere retti dai bordi della pentola all’esterno e internamente si devono reggere reciprocamente: è lecito, anzi intelligente aiutarsi con parti del gambo perfettamente pulite ed eventualmente inserite come zeppe negli spazi eccessivi. I carciofi ripieni e il loro sugo cuociono in circa quarantacinque minuti: in questo tempo, di tanto in tanto, li muovo con cura per verificare che non si siano attaccati sul fondo. Basta uno spostamento millimetrico che ottengo facendo pressione sul lato con un attrezzo di legno.
Col sugo si condisce la pasta e il carciofo si mangia dopo. Chi fosse in vena di godere davvero, può mettere un carciofo direttamente sulla pasta e procedere come ai vecchi tempi quando si mangiava con la pancia e non con il palato. Non che sia la via più giusta, ma io e M’chel abbiamo fatto così.
Devi fare login per commentare
Login