Storia
L’edificio della memoria: i doveri degli architetti e quelli dei cittadini
L’8 maggio, un tardo pomeriggio qualsiasi, vista la primavera finalmente arrivata, decido che la giornata di lavoro è finita, montare in moto e andare ad esplorare i colli attorno alla mia nuova città, Bologna.
Curve e contro curve. Paesaggi bellissimi a 15 minuti da casa. Poi ad un bivio leggo “ Monumento ai Caduti di Sabbiuno”. Prendo la via e mi ritrovo a contemplare un monumento di rara forza e bellezza. Un misto tra Land Art e architettura del paesaggio – immerso nel Parco dei Calanchi di Sabbiuno. Progettato nel 1973 da, allora, tre giovani architetti Letizia Gelli Mazzucato, Umberto Maccaferri e Gian Paolo Mazzucato.
Bruno Zevi ne scriverà su un numero de L’Espresso dell’agosto 1973.
Mi immergo subito in quest’opera, la percorro, cerco per quanto possibile di immedesimarmi in uno dei 53 partigiani fucilati ( altri 47 non vennero riconosciuti), ma la mia concentrazione è rotta da tre giovani ragazzi indiani che sono poco più avanti di me e che dopo aver letto le spiegazioni , aver percorso a testa bassa il sentiero che porta al luogo della fucilazione, una volta riemersi da questo si perdono a discutere, ridere e scherzare, sedendosi sul bordo del calanco, su cui parte del monumento insiste, e dove, una volta riflettuto sul fatto che da quello stesso posto i corpi cadevano a valle, si gode di un panorama mozzafiato. Mi metto un po’ a parlare con loro e chiedo come erano giunti li, e perchè. Mi dicono che sono studenti di architettura e di paesaggistica e che avevano letto del monumento. Così cominciamo a parlare di noi – per quanto possibile, gli racconto un po’ della guerra, mi dicono che qualche loro lontano parente era venuto – assieme agli inglesi – a combattere in Europa e scopriamo così delel cose nuove. Che uniscono.
Torno a casa, felice delle nuove scoperte e riflettendo su un tema che da architetto, molto mi sta a cuore, che studio e visito quando posso. Il ruolo della memoria nello spazio.
Oltre a farmi ripensare a tutti gli incredibili memoriali partigiani titini balcanici – cui oggi si lavora per trasformarli in una rete nazionale di parchi – e che potete vedere qui la giornata appena trascorsa mi faceva tornare in mente “Memorials on the Sidewalks – Urbs oblivionalis. Urban Spaces and Terrorism in Italy” un progetto con cui Elena Pirazzoli e Roberto Zancan avevano partecipato alla Biennale di Architettura curata da Rem Koohlaas.
Nel loro piccolo padiglione – due grandi cerchi di multistrato posti uno di fronte all’altro in verticale a formare un corridoio – attraverso anche una forma partecipativa da parte del pubblico, cercavano di individuare tutti quei memoriali, monumenti, lapidi, targhe luoghi che segnano la cartina di tornasole di quelli che furono anni drammatici per il nostro Paese quelli della “strategia della tensione” gli anni di piombo. Cercavano di costruire un racconto su di essi. Elementi piccoli o grandi che fossero, che avevano inevitabilmente influenzato lo spazio pubblico e lo spazio urbano. Luoghi con delle “auree” che tutti noi, se ci mettiamo a scavare nella nostra memoria urbana conosciamo. E su cui ci siamo fermati a riflettere chi più chi meno. Ma che non abbiamo mai “vissuto” appieno in quanto appunto luoghi, benché densi di significato,sfuggevoli che oggi fanno parte – come nella profondità di campo fotografica – di una quinta sfocata su cui si muovono le nostre vite.
Quando vidi “Memorials on the Sidewalks” non potei non ripensare alla piccola lapide messa a memoria di Sergio Gori, dirigente Montedison, amico di mio padre, che la mattina del 29 gennaio 1980 venne ucciso sotto il portone di casa – a poche decine di metri dove oggi vive mio fratello – a Mestre.
Una piccola lapide che si, ricordavo, e vedo sempre quando torno dai miei parenti, ma che non è che una piccola lapide – spesso trascurata – tra due alberi entro una aiuola spartitraffico. E a quella stessa lapide, non ho potuto non pensare dopo essermi immerso nella memoria di Sabbiuno. Ad altri valori che quei luoghi potrebbero incarnare.
Il 9 maggio – il giorno dopo la mia visita a Sabbiuno – era il quarantennale dell’uccisione di Aldo Moro. E di Peppino Impastato.
La giornata ha visto molte celebrazioni. Da parte mia molte domande – che in realtà spesso mi faccio – sul cosa sarebbe oggi l’Italia senza quell’uccisione, quelle uccisioni. A cosa sono servite. Quelle e molte altre.
Ma la cosa su cui mi sono messo a riflettere è stata che li, in Via Michelangelo Caetani, dove Aldo Moro fu trovato, per non pensare a Via Fani, in quel luogo così pieno di significato per l’Italia tutta oltre che per i parenti dello statista pugliese, è ancora possibile parcheggiare. E la cosa mi frastornava ancor più mentre guardavo le trasmissioni televisive in cui i vari presentatori erano li a rimembrare, tra una macchina e l’altra. Nulla della più normale normalità di un parcheggio ammutolisce ogni cosa. Ricordo la mia prima camminata fatta fin li. E lo sconforto nel vedere che quel luogo, non aveva nessuno “spazio” riconosciuto. Un luogo di sosta che non sia per le macchine. Un luogo dove poter portare una scolaresca, li in strada, in sicurezza e fermarsi senza pericoli. Un luogo di qualità urbana. Di bellezza. O meglio di smodata bellezza. Quello che succede a Sabbiuno. Quello che non succede per Sergio Gori e molti altri. Per contro fa molta “tenerezza” che su street view si veda come l’operaio che sta lavorando sulla strada, sia li, congelato dalla telecamera, nel momento in cui sta leggendo la targa. Segno di qualcosa che c’è. Che uno “spazio” nell’intimo delle persone è rimasto.
Perché allora, mi sono chiesto, demandiamo – demandano – tutto ad una targa, ad un bassorilievo. Perché tutti questi luoghi di dolore e come tali di crescita civile, non possono diventare altro. Ma io lo so. Ragiono da architetto. Vedo opportunità di un possibile “bello” ovunque. Sia un luogo di raccolta in caso di catastrofi naturali, sia un attentato terroristico.
Perchè non riusciamo, noi, qui, in Italia – in maniera catartica – a ribaltare le cose?
Perchè dal Cimitero di guerra tedesco del Passo della Futa (un luogo di fratellanza post – tragedia universale eretto a 50 km da dove gli stessi tedeschi uccisero i partigiani di Sabbiuno) opera di Dieter Oesterlin o da Sabbiuno stesso non vorremmo mai andare via e invece davanti al luogo dove fu trovato Aldo Moro….o Peppino Impastato…o che so…Pierpaolo Pasolini….nulla accade di tutto ciò?
Ieri, 10 maggio. Sono a Bologna. Conferenza di TAM Associati. Per chi non lo sapesse lo studio italiano di architetti che ha progettato gran parte degli Ospedali di Emergency in Africa, Afghanistan e non solo, dato che Emergency è presente come molte altre ONG nelle periferie italiane o in quartieri disagiati del cosiddetto primo mondo. Perché alla fine siamo tutti uguali. E non ci sono cittadini di serie A e serie B. Ci sono cittadini, o meglio uomini. Stop.
Raul Pantaleo, uno degli archietti, raccontava le sue esperienze, e con lui anche Rossella Miccio, di Emergency.
Entrambi citando Gino Strada raccontavano della volonta da parte del fondatore di Emergency di pensare e erigere – ovunque, anzi ancor più nei luoghi più sfortunati del mondo – luoghi : “Scandalosamente belli”.
Di come la bellezza e lo spazio comune siano la prima medicina contro la malattia. Qualsiasi malattia. Rossella, a sostegno di ciò, ha raccontato di come i primissimi ospedali – le due, tre volte a settimana, in cui gli ospedali di Emergency aprono ai parenti dei malati – venissero invasi da tutti, non solo i parenti. E non solo quelli più prossimi, ma anche bambini, e anziani. Questo perché l’ospedale di Emergency per il fatto di essere “zone franche”, la loro pulizia, per il loro aspetto, per la loro cura , nonostante fossero luoghi carichi di dolore, erano anche gli unici luoghi/spazi dove i bambini potessero giocare senza rischi e i più anziani e non solo loro, lasciarsi un po’ andare. Creando così un cortocircuito positivo per tutti, finendo poi il suo intervento chiedendo a noi in sala: “ Ma ve lo immaginereste, voi, un ospedale così, da noi?”. Io ripensando a tutto quello scritto sopra, mi sono chiesto “ Ma ve lo immaginereste voi se tutti i luoghi della memoria, spesso dolorosa, anzi se i luoghi della memoria dolorosi, grandi o meno grandi, fossero cosi?”. Mi sono chiesto che città avremmo.
Quanti piccoli o grandi spazi “ Scandalosamente belli” potremmo ritrovarci tra le strade? Perché si il nostro Paese è disseminato di questi luoghi. Quanto più forte potrebbe diventare la “rete della memoria”, se in Via Caetani e in Via Fani. non potessimo più solo ed esclusivamente parcheggiare, ma ci fosse uno spazio curato,bene comune, che restringe la carreggiata o l’aiuola di Sergio Gori diventasse un piccolo giardino che invade il marciapiede obbligandoci a fermarci, o quantomeno a rallentare il passo e guardare. Quanto più doloroso e silenzioso rispetto uno Stato – non inteso come nazione ma come luogo di noi tutti – mostrerebbe per le vittime che quello Stato hanno immaginato, voluto, difeso o semplicemente vissuto facendo si che il luogo del loro supplizio non sia solo un sordo muro con un testo appeso, una fredda lapide, o una corona di alloro rinsecchita ma uno spazio vivo, in cui creare relazioni, idee e discussioni. Magari giocare. Luoghi – spazi belli, dove fermarsi cinque minuti durante la nostra giornata a riposarci, a pensare, a chattare, o che so magari fare anche l’amore.
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