Arte
Le città dei rifugiati: un altro sguardo sulla Biennale di Venezia
Sul manifesto della XV Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, diretta da Alejandro Aravena e intitolata Reporting from the Front, campeggia una donna in prendisole a fiori, foulard in testa, in piedi su una scala di metallo, nel deserto. È l’archeologa tedesca Maria Reiche, fotografata da Bruce Chatwin. Che cosa faceva? Studiava le linee di Nazca, che soltanto se viste dall’alto esprimono il loro senso. Soldi per noleggiare un elicottero non ne aveva, ma se si fosse spostata in macchina avrebbe distrutto il suo oggetto di studio. Sola, su quella scala traballante, è ora un’immagine fulgente di presa in cura di un territorio e dei suoi segni.
Questa Biennale parla di decifrare, di lenire, di accompagnare e di denunciare. Parla spesso di tempi lunghi, di ridistribuzione delle ricchezze – che siano competenze, informazioni, risorse – e di riscatto.
Il Padiglione Italia, curato da TAMassociati, si chiama proprio Taking Care. Progettare per il bene comune, ed espone, oltre a una selezione di 20 progetti centrati sulla valorizzazione di beni immateriali quali l’identità, la conoscenza e il “capitale sociale”, con un accento sui processi che hanno reso possibile la loro realizzazione, anche i progetti di 5 “dispositivi” mobili, ideati da 5 studi italiani con altrettante associazioni che si occupano di cultura, legalità, salute, ambiente e sport, e che verranno realizzati mediante crowdfunding per essere collocati nelle periferie urbane. Per la prima volta la Biennale esce fuori di sé, e non racconta solo quello che è stato, ma si proietta nel futuro con un’azione progettuale vera e propria.
Il mondo è un campo di battaglia, migliaia di persone si spostano rischiando la vita, piovono bombe sui civili, le periferie esplodono: tale è, soprattutto (ma non solo), il reportage di questa Biennale. Qui, però, si racconta una tale miriade di progetti intelligenti che se ne esce un po’ turbati, ma anche un po’ consolati. Soprattutto perché non c’è retorica, non c’è quel fastidioso chiamare l’applauso a tutti i costi, ma ci sono intrecci di progetti complessi, in divenire, imperfetti, “sporchi”, testimoni più di un processo che di un risultato, più di una ricerca che di un raggiungimento.
(foto di Felix Torkar)
Forse non consola, ma certamente fa riflettere il padiglione spagnolo, Leone d’Oro, con una documentazione dei progetti rimasti incompiuti per la crisi. E colpisce come uno schiaffo la sezione dedicata al progetto Forensic Architecture diretto da Eyal Weizman. Un pixel corrisponde alla dimensione dell’apertura provocata da una bomba su un tetto, nonché alla dimensione di un corpo umano visto dall’altro: per questo motivo le immagini satellitari non possono testimoniare se sia avvenuto un bombardamento né se ci siano state vittime. Il focus si concentra un’abitazione civile in Pakistan, in cui, grazie a un video girato dentro la casa, si dimostra che è stata colpita da un missile e che le ombre sulle pareti corrispondono alla posizione delle vittime.
Molta parte della mostra, inevitabilmente, è dedicata al tema dell’impatto dei rifugiati sulle città europee. A questo tema, oltre a numerose installazioni all’Arsenale, sono dedicati i padiglioni della Finlandia, con i risultati del concorso “From Border to Home” [http://www.mfa.fi/rajaltakotiin_eng]; dell’Austria, che presenta il lavoro di tre team di architetti per altrettanti luoghi della città di Vienna, e della Grecia, che nel suo anfiteatro sperimenterà momenti di partecipazione intorno ai concetti di syneleusis (assemblea), sinergia e simbiosi.
Il padiglione della Germania, Making Heimat è uno dei più articolati. Si basa sulle tesi di Arrival City, il volume di Doug Saunders del 2012, sotto forma di otto assunti: la città d’arrivo ideale è una città dentro la città, con prezzi bassi, con un’economia dinamica e buona rete di mezzi di trasporto, informale (cioè tollerante verso pratiche semi-legali), auto-costruita, con disponibilità di spazi al piano terra, una rete di immigrati e la necessità delle migliori scuole. Una serie di esempi corroborano queste tesi; quello di Offenbach è particolarmente interessante.
L’allestimento, progettato da Something Fantastic, è fintamente sciatto, con le sue sedie di plastica da tavola fredda, il bancone e le panche di pallets carichi di mattoni, la grafica multicolore come le insegne dei negozi. Le otto tesi sono esposte in forma di claim intorno a cui si aggregano gli esempi, le pratiche, i modelli. Ci si orienta, si capisce, si confronta, si riflette. Se ne esce con una cornice teorica chiara a cui fare riferimento; con la percezione che la Germania, al di là di certe retoriche, sia veramente trainante anche dal punto di vista della riflessione architettonica e urbanistica, e che si sia profondamente interrogata sulla propria capacità di rifondarsi su basi nuove, perlomeno dal punto di vista della forma dei luoghi e della loro ri-significazione.
(foto di Kirsten Bucher)
Alcune porzioni di muro sono state abbattute, e ora il padiglione è aperto sulla laguna. Come scrivono in catalogo i curatori Peter Cachola Schmal, Oliver Elser e Anna Scheuermann, “ci siamo molto stupiti che la Soprintendenza di Venezia abbia approvato i quattro grossi buchi nella facciata, una presa di posizione sulla situazione politica attuale. Il progetto del ‘padiglione aperto’ […] può, in fin dei conti, essere una metafora: nell’aprirsi verso la laguna esso perde la sua formalità, diventando così più mediterraneo e incoraggiandoci a scoprire nuove qualità spaziali”. Questi scorci, che portano le città tedesche proprio davanti alla laguna veneziana, sembrano stringere genialmente l’Europa in un unico respiro, ne rimpiccioliscono scala e differenze. Non siamo pronti ad accogliere i rifugiati, non lo sono le nostre città né le nostre mentalità: ma il padiglione tedesco sembra indicare una via molto pragmatica di comprensione, se non di accoglienza.
(foto di copertina di Felix Torkar)
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