Immobiliare
La città non è un Hedge Fund
Dal dizionario Treccani: ”Hedge Fund: Particolare categoria di fondi comuni di investimento orientata a raccogliere capitali presso un gruppo relativamente ristretto di sottoscrittori benestanti che possono permettersi di destinare risorse piuttosto cospicue a investimenti ad alto rischio”.
Una città non è un Hedge Fund. Questo pensiero, probabilmente banale, mi è venuto alla mente mentre riflettevo sulle ultime vicende balzate agli onori della cronaca giudiziaria milanese, in relazione a una serie di inchieste avviate dalla Procura di Milano su alcune operazioni immobiliari.
Rispetto alle vicende specifiche, fedele al mio reale garantismo e conforme alla non formale e sobria fiducia nella Giustizia non entro nel merito. Conosco, per ragioni professionali e per lunghi anni di confronto e spesso dibattito riflessivo, molti degli indagati. E personalmente non ho dubbi nel ritenerle persone integerrime.
Così come fatico a pensare che la struttura “funzionariale” del Comune di Milano sia una sorta di accolita di incompetenti o di opachi collusi con gli sviluppatori immobiliari. Anche in tal caso, in anni di lavoro e spesso di schietto confronto ho potuto apprezzare grandi professionalità e linearità, con tutte le figure amministrative con cui si è avuto a che fare, alcuni dei quali indagati in queste inchieste. Si tratta di persone competenti che si assumono rischi importanti a fronte di riconoscimenti spesso non proporzionali agli stessi.
Infine mi preme ricordare che anche nostre realtà, nel passato, hanno subito indagini e provvedimenti – penali e amministrativi – anche in presenza di strumenti attuativi convenzionali e approvati dal Consiglio Comunale, durati anche dieci anni e finiti nel nulla dopo tre gradi di giudizio. Le inchieste, va sempre ricordato, non sono sentenze.
Dette tutte queste premesse ritengo però utile condividere il mio pensiero non solo di operatore del settore abitativo ma anche di urbanista di formazione e studio per una parte della mia vita e di ex, giovane e imberbe, assessore all’urbanistica, edilizia privata e viabilità di un Comune di 20.000 abitanti.
La riflessione parte dal fatto che se c’è una presunzione di patologia – e le molteplici inchieste giudiziarie questo segnalano – non basta appellarsi da un lato alla comprensibile convinzione difensiva del rispetto assoluto delle norme vigenti o delle loro interpretazioni e, dall’altro, all’eccitata caccia alle streghe rispetto a chissà quale congrega di interessi. Bisogna cercare di capire perché si è arrivati qui e dove sia il “punto di rottura”.
Dal mio punto di vista il tema cruciale è quello legato all’affermazione, precipua nelle società dell’Occidente “realista capitalista”, della città (e del territorio in generale), come una sorta di piano di sfondo per dare corpo a una significativa redditività finanziaria della stessa. Investimenti a breve termine che possano garantire alti rendimenti dall’estrattività di valore urbano, chiedendo però un fattore necessario a tutto ciò: velocità.
Ma, come detto, la città non è un Hedge Fund. La città (e non solo Roma, eterna per sua natura), è una stratificazione fisica, antropologica, sociale, economica, politica, artistica, naturale – complessissima dunque – che ha il respiro dell’eternità. Forzarne oltremodo lo stress trasformativo ingenera squilibri che attivano risposte di reazione. Uno dei nodi che emerge da quanto si legge rispetto a tali inchieste è l’utilizzo di strumenti semplificati per trasformazioni urbane che hanno un impatto importante sulla città. La lezione che ne ricavo è che se si fa troppo ricorso a strumenti semplificati che espungono in parte o in toto la decisione dal confronto politico connesso all’impatto sulla città, si ingenerano sospetti (spesso infondati) che mettono in moto conflitti che sfuggono di mano.
Serve recuperare un senso della misura. Da un lato si dovrebbe capire perché si è affermato tale ricorso. La mia risposta è che i tempi di analisi e rilascio dei titoli edificatori sono divenuti insostenibili non solo per la dimensione di redditività finanziaria ma anche per le esigenze abitative delle persone. Servono più risorse umane nella Pubblica Amministrazione per affrontare la mole di lavoro richiesto.
Ma dall’altro lato serve una presa d’atto da parte degli operatori che si è di fronte a un cambio di fase. Serve guardare la città e la sua trasformazione non solo con gli occhiali della crescita economica o della rendita, con i tempi frenetici che tutto ciò comporta, ma è necessario tornare a guardare la città come soggetto e non come oggetto. Che necessita di pazienza, sobrietà e redistribuzione. Economica e sociale.
Questo richiederà una maggiore propensione all’ascolto delle istanze dell’Amministrazione quando pone sul tavolo modifiche normative ispirate a una minore interpretatività delle norme e a una più apparente rigidità, per cercare di eliminare alla fonte insidiose alee di incertezza, e – dal lato della pubblica amministrazione – lavorare a un efficientamento della macchina per arrivare a mettere in pratica procedure sempre più rispondenti alle esigenze della città e dei suoi cittadini, in tempi sensati. Uno degli obiettivi che Milano, rivendicando un ruolo di “Città Regione”, dovrebbe porsi è quello del consolidamento della struttura amministrativa proprio per rafforzare il governo di indirizzo pubblico dei grandi processi di trasformazione privata, secondo una chiara e definita traiettoria da discutere nelle sedi democratiche.
Serve, insomma richiamarsi tutti a un principio di equilibrio che guardi sempre, come primo obiettivo, al complesso ma fondamentale criterio del ”Bene Comune”.
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