Arte

La Biennale di Venezia celebra (inconsapevolmente) il ‘68

29 Maggio 2018

Fuori dei cancelli dei Giardini, cinquant’anni fa si urlava: “Biennale dei padroni, bruceremo i tuoi padiglioni”. Qualche mese prima l’occupazione della sede da parte dei contestatori aveva condotto all’annullamento della XIV edizione della Triennale di Milano. Alla fin dei conti a Venezia non accadde quasi nulla. Una carica della polizia a San Marco e l’irruzione di quattro “situazionisti” danesi nel padiglione scandinavo. Una gran parte degli artisti italiani capovolsero, coprirono o ritirarono le loro opere. Già a luglio le opere furono rimesse a posto e tutto si svolse secondo consuetudine.

Eppure, pare che, per celebrare la ricorrenza del ’68, la più conosciuta manifestazione artistica italiana abbia inconsapevolmente voluto tener conto proprio di quel lontano slogan. Come non avveniva da un po’ di anni, le acquisizioni principali, i risultati materiali di lungo termine di quella che comunque è, e rimane, una mostra temporanea, sembrano consistere nel consolidamento di alcuni degli edifici della sua sede. L’esito solido di due capolavori dell’edilizia italiana: una finestra e un padiglione.

Il merito della prima è delle curatrici Yvonne Farrell e Shelley McNamara. Lavorando all’allestimento han scoperto l’esistenza di una vecchia finestra murata, esito di un antico allestimento di Carlo Scarpa. Riaprendola, hanno reso nuovamente luminoso un angusto passaggio tra due sale del padiglione centrale dei Giardini. Il corridoio ora illumina due sale e consente una ritrovata vista sul canale retrostante e i padiglioni al di la di esso. Il vecchio infisso in legno, connotato da due archi di cerchio, inquadra la riscoperta di un possibile legame tra interno e esterno in un edificio che non ha nessun’altra apertura percepibile dal pubblico, se non gli accessi pedonali e i lucernari zenitali. Un piccolo colpo da architetto che, con la colorazione delle ante dei punti di passaggio tra una sala e l’altra, e la decisione di lasciare inoccupata l’infilata centrale delle Corderie, in modo da lasciare la percezione dell’intera lunghezza delle stesse, sono l’espressione, in allestimento, del Freespace che è il programma dato all’edizione di quest’anno. (leggi anche qui).

Il padiglione è quello del Canada. Riconsegnato ai giardini dopo un lungo processo di restauro e un rapido cantiere di realizzazione. Una vicenda che illustra tutto l’intrigo burocratico-amministrativo e la sovrapposizione di poteri nella gestione degli spazi nelle città antiche italiane tra istituzione proprietaria, ente di gestione, sovrintendenza. Ma che, al tempo stesso esprime la possibilità di uscirne per mezzo di un intreccio di savoir-faire e individualità umane che esprime la capacità di spiegare che un bel progetto è soprattutto capacità di rinunciare all’affermazione di individuale arroganza per trasformare il compromesso e la discussione nell’incontro tra contesto locale e sogno di un futuro migliore.

In breve si tratta dell’aggiornamento dell’edificio dei maestri milanesi del modernismo italiano BBPR inaugurato nel 1958. L’anno precedente Lester Bowels Pearson era stato il primo canadese a ricevere il premio Nobel per la pace, per aver istituito le forze internazionali di interposizione dei Caschi Blu, al fine di risolvere la crisi di Suez. Un paese consolidava la sua presenza sullo scenario mondiale attraverso un’immagine di politica pacificatrice e aspirava a partecipare al dibattito sull’essenza dei valori della modernità, attraverso le ricerche artistiche. Con un percorso che è raccontato dai documenti in mostra, per la realizzazione di questa sintesi vengono scelti i BBPR, i quali scelgono di rappresentare questa sintesi un’immagine in qualche modo sorprendente: il tipi ovvero quella che noi definiamo genericamente la tenda dei nativi locali (anche se definire correttamente qui edifici – spesso ad esempio chiamati wigwam – è operazione complessa e, come vedremo delicata). In sostanza, l’emergenza di un paese è rappresentata attraverso una costruzione non-coloniale, in un processo di de-immaginazione e translitterazione in materiali e soluzioni proprie dell’ottimismo critico tardo modernista. Voglia di essere immagine di un futuro migliore, malcelato desiderio di far parte dell’élite mondiale sono il monumento sintetico di un’epoca fintamente ingenua, per la quale anche il restauro mostra una profonda nostalgia.

Nel brillante restauro e richiamo a quel passato, questa vicenda però trascurerebbe tutto risvolto negativo di appropriazione culturale dei manufatti e delle espressioni delle comunità native, se non delle tremende tragedie e crimini a loro fatti vivere proprio in virtù degli obiettivi sopra evocati. A completare questa vicenda invece la partecipazione ufficiale del Canada all’esposizione, quest’anno ospitata nella zona del cosiddetto Isolotto all’Arsenale, appunto per l’indisponibilità del padiglione storico. Qui, è esposta un’estesa riflessione sull’architettura dei nativi di Turtle Island (il nome dato a i territori da quelli che ci abitavano fino all’arrivo degli orientali, gli europei, gli “amerighi”, cioè noi). Una caleidoscopica presentazione, per nulla elegante, ma estremamente efficace, degli edifici comunitari, sociali e residenziali realizzati in periodi recenti per tentare di recuperare “le politiche di colonizzazione dove gli abusi passati delle popolazioni indigene erano costruiti da politiche razziste di genocidio e apartheid”.

La questione è ovviamente di grande attualità politica ed istituzionale in questo momento in Canada. Essa mette in luce anche la nostra visione un po’ edulcorata di questo paese e di alcune sue figure politiche recenti, sulle quali – su altri temi come per esempio la costruzione di una nuova pipeline – sono in corso scontri politici e polemiche altrettanto accesi quanto quelli nostrani.

Entrambi, questi piccoli capolavori dell’architettura italiana (una finestra e un padiglione), non compiuti da italiani, ma fatti propri e reinventati da stranieri piegati alla vischiosità e alla complessità delle cose che questo paese consegna ogni giorno come messaggio al mondo, non propongono dunque un’architettura dell’aggiunta. In fondo essi suggeriscono che bisognerebbe smettere di costruire, che dovremmo limitare l’intervento umano sulla crosta terrestre lì dove già esiste, senza estenderlo altrove. Indicano la necessità di scoprire l’esistente, di migliorarne l’efficienza climatica degli edifici già presenti, di studiare con attenzione una condizione.

Sembrava importante sottolineare queste cose in una manifestazione la cui apertura è sempre una grande festa e dove i mondi accademici bramano di trovare più teoria e quelli professionali più novità da proporre ai loro rispettivi mercati. Perché, se seguissimo le loro volontà, come recitava un ciclostile del ’68, allora sì la Biennale sarebbe “lo strumento della borghesia per codificare una politica di razzismo e di sottosviluppo culturale, attraverso la mercificazione delle idee”.

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foto di Andrea Pertoldeo

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