Beni culturali
Gli spazi di studio e le città
Perché le città universitarie sono così belle in tutto il mondo? Se si va in giro a Montréal, a New York, a Ginevra, a Cambridge, a Lovanio, a Milano, a Bologna si troverà sempre un bar con qualcuno che sta leggendo, scrivendo, cercando informazioni. Persone che discutono, scambiano opinioni, cercano soluzioni o inventano problemi per cercarne di nuove. E subito vicino sicuramente c’è una biblioteca. Nelle città universitarie insomma è bello studiare perché imparare è un contagio, è una specie di musica, se la senti inizi a immaginarla e piano piano desideri di suonare e alla fine succede, suoni.
Fino a qualche anno fa era così anche Venezia. Anzi a Venezia poteva capitare anche di fermarsi al bar e trovare Giorgio Agamben con i suoi, Joseph Kosuth con i giovani artisti, facilissimo sentire conferenze, incontri. A Venezia anzi è tutto più facile, letteralmente inciampi nelle persone. Per caso a me è capitato di scontrarmi con Umberto Eco che usciva dal treno, colpa mia che correvo ed ero in ritardo sul binario, era a Venezia per la Biennale con l’istallazione preparata da Boeri. Non proprio un bell’incontro ma posso dire di avere chiara la fenomenologia fisica di Umberto Eco che si è messo a ridere nel vedermi in affanno in quel modo e ha fatto ridere pure me.
La biblioteca Querini era aperta fino a mezzanotte, come quella Centrale dello Iuav ai Tolentini. Esistevano solo per IUAV diverse biblioteche, Palazzo Pemma, Ca’Tron, la Biblioteca del dipartimento di Storia nella sede di Palazzo Badoer.
Già prima delle chiusure per la pandemia gli spazi si erano ridotti. Il ritiro di alcuni investitori per IUAV ha generato una ristrezza economica, costringendo l’università a vendere alcuni palazzi, Palazzo Pemma che era anche da restaurare è stato il primo. Ora è un albergo di lusso. La biblioteca di Ca’ Tron a scaffale aperto e quella di Palazzo Badoer sono state chiuse, tutto ai Tolentini senza più scaffale aperto. Contemporaneamente il sistema bibliotecario si è evoluto, di fatto bastano una connessione e una panchina per studiare. Venezia sembrerebbe perfetta, ma in una città assediata dai turisti e dove sedersi a leggere su una fondamenta è considerato accattonaggio e offesa al decoro, l’unica risorsa rimangono i tavoli dei bar. A pagamento e nei fine settimana assediati da feste di addio al celibato, comitive in cerca di ubriacatura rapida, insomma non proprio un luogo dove scambiare idee.
Il Covid se possibile ha peggiorato questa condizione. Biblioteche chiuse per paura del contagio, università da remoto, possibilità di iscrizione anche a più corsi di laurea, webinar professionalizzanti che fanno punteggio tutto su un tablet, come le lezioni in DAD.
Se gli adolescenti mostrano il disagio di questa condizione di apprendimento, perché i giovani e meno giovani adulti dovrebbero invece trarne giovamento?
Cosa succede se le biblioteche, che sono in definitiva degli uffici gratuiti dove studiare e potere trovare qualcuno con gli stessi interessi, diventano luoghi chiusi dove prenotare in anticipo, programmando sessioni di studio di non più di due ore (succede nelle biblioteche di dipartimento di Padova)? Cosa succede all’esperienza della città universitaria se per strada si inizia a sentire insicurezza, come era capitato dopo gli attentati del Bataclan, non a caso rivolti a luoghi di aggregazione di studenti per lo più non nati a Parigi? E cosa ne è di questa possibilità di incontro e di libertà se la vita fuori sede diventa costosissima per gli affitti? Gli urbanisti rispondono che la soluzione è la città dei quindici minuti. Dove in bicicletta raggiungi qualsiasi luogo . Certo, come no, se vivi a Quarto Oggiaro e in quindici minuti vai in biblioteca in bici, nella biblioteca di quartiere incontri persone che, come te, stanno preparando la tesi in filologia bizantina. Nel frattempo ti fermi pure a fare la spesa a chilometro zero, ah, no il chilometro zero bio è solo in zona a traffico limitato. Che è pure vicina alla biblioteca dell’Università dove però accedi per mezz’ora se hai prenotato. In alternativa ci sarebbe il bar della fondazione ma è pieno, quindi che fai? Ti metti sul tablet e scarichi l’impossible senza nemmeno uscire dalla tua stanza.
Ecco, così come smetti di uscire dalla tua stanza, smetti anche di uscire dai tuoi pensieri, e come la città si chiude in una specie di banca a cielo aperto che conserva il puro valore immobiliare, così spariscono biblioteche, archivi, testimoni di una forma di vita che è fatta di spazi di curiosità condivisa.
Probabilmente è solo un momento di riordino, altre forme di spazi di studio stanno emergendo. Ma sicuramente ora che stiamo solo vedendo la fine del mondo che c’era e per quello che viene non ci sono fondi a sufficienza, la vita degli studenti è più che mai isolamento, competizione e solitudine. Ironico, nei bar delle residenze universitarie al Campus di San Giobbe, sui tavoli del bar, c’è anche scritto, rispettiamo le regole per una convivenza migliore, vietato portare libri e PC dalle 12:00 alle 15:00, tavoli di proprietà del bar. Stessa cosa nel piano terra della biblioteca Querini. Vietato studiare ai tavoli del bar.
Quindi, se poi il rancore e la tristezza prendono il sopravvento e in alcuni più fragili raggiungono livelli di allarme, forse è segno che la formula *città dei quindici minuti* al momento è un modo carino per dire, città dei ricchi e città dei poveri. Anche e soprattutto di capitale culturale.
Ah però per Venezia, c’è il campus di via Torino a Mestre. Del resto chi è così folle da volere studiare al convento dei Tolentini, o sul Canal Grande a Ca’ Tron, quando può disporre di una magnifica torre di periferia con tram biciclette e parco vista Porto Marghera?
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