Urbanistica
Dublino, anche quando si parla di economia i numeri non dicono tutto
Ripropongo qui un reportage su Dublino pubblicato nell’autunno del 2016 su The Towner, oggi non più online. L’articolo, insieme ad altre cose, evidenzia come in quel periodo la città, e tutta l’Irlanda, superata la crisi finanziaria del 2008, beneficiassero di una sensibile ripresa economica, evidente però soprattutto nei settori dell’industria farmaceutica, della tecnologia e della comunicazione, trainati dalle multinazionali, mentre altre fasce sociali fossero ancora in una condizione economica disagiata e avessero difficoltà a trovare alloggi a prezzi accessibili.
“Are you ok?”, “Stai bene?”. La domanda mi è stata rivolta spesso quest’estate a Dublino da perfetti sconosciuti, mentre ero su un marciapiede, o davanti alla porta di un pub e in un modo un po’ straniato e assorto, mi guardavo attorno, come a meditare sul luogo, sul paesaggio urbano in cui mi trovavo. Lo faccio spesso quando sono in viaggio e prendo confidenza con un posto che conosco poco, e a volte anche a Milano, dove vivo. Di solito nessuno mi chiede nulla. E se da un lato mi è parsa una forma apprezzabile di cortesia e, di più, di attenzione, dall’altro vivevo la cosa come un elemento ansiogeno, un fattore di allarme eccessivo.
Ho sperimentato il culmine di questa attenzione in un tardo pomeriggio, poco dopo ferragosto, in un pub dalla facciata nera e grande quanto un soggiorno spazioso. Si chiama The Confession Box, a Marlborough Street, a due passi da O’ Connell Street e da The Spire, il fuso di acciaio alto 120 metri, collocato nel dicembre del 2002, lì dove prima c’era la Nelson’s Pillar, la colonna che raffigurava il grande ammiraglio britannico, distrutta nel 1966 da una bomba dell’Ira. Il pub ai tempi della rivolta di Pasqua del 1916 e della guerra di indipendenza dall’Inghilterra del 1919-1921 era frequentato dall’eroe nazionale Michael Collins. Il nome, The Confession Box, sembra avere un origine duplice, da un lato legata alla piccola, e in qualche modo confessionale dimensione del posto, dall’altro al fatto che, durante la guerra di indipendenza, i preti della vicina Cattedrale protestante venivano nel locale a confessare i rivoltosi scomunicati dalla Chiesa cattolica irlandese.
Entro nel pub, mi fa male la gola e ho un raffreddore piuttosto forte, regalo della pioggia e della fresca estate dublinese. Mi siedo a un tavolino e chiedo un the. La signora al bancone, sulla cinquantina, o forse più giovane, e dai lunghi capelli neri, mi dice che il the non è tra le ordinazioni possibili. Un signore seduto al bancone mi fa sorridendo: “Qui si servono soltanto alcolici”. Rispondo che, raffreddato come sono, vorrei bere un the caldo. E lui: “Prenditi un bel whiskey”. Dopo qualche minuto la signora mi chiede se ho deciso che cosa prendere. Un po’ a corto di fiato a causa delle vie respiratorie intasate e forse tradendo un grado di spossatezza maggiore rispetto al mio disagio reale, balbetto che ci sto pensando. Lei senza esitare un attimo e quasi di corsa lascia bancone e mi chiede di seguirla fuori dal locale, dice che vuole parlarmi. Non capisco, ma la raggiungo davanti alla porta d’ingresso del pub.
“Perdonami, non volevo essere brusca o scortese, ma volevo parlarti in privato, senza che sentissero gli altri clienti”, mi dice a bassa voce, dolcemente.
“Dimmi pure”
“Stai bene?”
“Sì, ho solo un forte raffreddore e volevo una tazza di the o una bevanda calda e non alcolica”
“Nient’altro che questo? Ne sei sicuro?”
“Ma certo”
“Ok, meglio così. Qui ho solo birra e whiskey, ma se prosegui lungo questa via trovi un locale dove puoi bere un the”.
“Grazie, appena sto meglio vengo a farmi una birra da voi”
“Ti aspetto”.
Questi senza dubbio sono episodi singoli, che è giusto lasciare dentro la loro piccola storia, senza isolarli a forza dal caso o dalle circostanze particolari che li hanno determinati. Cambiando persone, occasioni, incontri, tempi e luoghi, anche di pochi minuti e per pochi metri, reazioni e comportamenti, pur nella stessa città, sarebbero stati diversi. Eppure, sono episodi che mi restituiscono l’impressione, soggettiva e parziale, di una città in allarme, con un grado di attenzione, e se si vuole di empatia, pur prezioso, esasperato, fuori misura.
E se si gira per Dublino, se si vive la città, sembrano trovare conferma certe intuizioni lungimiranti e scomode sullo stato delle cose. Conferma che va al di là della forte ripresa del prodotto interno lordo che risulta dalle statistiche, dopo il tracollo finanziario e immobiliare del 2008. I numeri dicono +7% nel 2015, e per il 2016 un +7,8%, corretto nelle ultime settimane fino a un vertiginoso +26,3%. Ma al di là dei numeri, trascinati dalle multinazionali farmaceutiche, del web e della tecnologia in testa, attirate da imposte basse e da un fisco fin troppo accondiscendente, come testimonia la recente vicenda di Apple, Dublino resta una città ferita. E sebbene le cose vadano meglio rispetto a due anni fa e il numero delle persone con un lavoro sia di nuovo in aumento, per molti dublinesi la crisi non è ancora stata superata. I numeri del City Council dicono che sono quasi 4mila le persone senza una dimora fissa che beneficiano di un ricovero provvisorio. Molti di loro sono dublinesi che hanno perso il lavoro e che avevano una casa fino a qualche tempo fa. E per le strade è non difficile incrociare organizzazioni umanitarie che dispensano forme diverse di assistenza.
Le dieci di sera sono passate da poco, è quasi buio, ma grazie all’estate e alla latitudine dal cielo scende ancora una luce debole, fredda e blu. Camminando per la centrale Connolly Street, vedo un autobus colorato di verde, sulla fiancata c’è un’insegna, che ricorda quella di Starbucks, la grande catena di coffeshop nata a Seattle, con scritto “No Bucks Cafe”, che significa “Caffè gratis”. Sull’autobus si distribuiscono cibo e bevande. Provo a chiedere informazioni, voglio capire meglio di che cosa si tratti. Un uomo, mentre si muove indaffarato di fronte a me, indica un’altra persona, “parla con lui”, mi fa.
Mi avvicino a un uomo sulla quarantina, biondo, massiccio, dalla carnagione chiara.
“Che cosa fate?”, gli chiedo. So che la domanda è ovvia, ma non riesco a iniziare in un altro modo.
“Siamo un’organizzazione umanitaria, ci occupiamo di persone senza casa e con problemi di alcolismo o di droga”.
“Da quanto siete attivi?”.
“Dal 2004, ma la nostra attività si è intensificata nel 2008”.
“Tu sei qui come volontario?”
“Sì, ho iniziato a collaborare con Tiglin dopo che mio fratello ha iniziato a bere troppo”.
“Che lavoro fai?”
“Lavoro nel campo della finanza”.
Per le strade di Dublino, nei dieci giorni di agosto in cui le ho vissute, percorse, attraversate, mi è capitato più volte di trovare persone a rovistare tra le immondizie. Ho visto anche una giovane donna, nei pressi di Ha’penny Bridge, l’ottocentesco ponte pedonale bianco sul fiume Liffey, portare via un intero sacchetto della spazzatura.
I prezzi, con il rilancio dell’economia, hanno ripreso a salire. Mangiare in un pub o in un ristorante etnico di Temple Bar, storico luogo di ritrovo degli artisti di strada e oggi centro di una movida caotica e turistica, può costare in media tra il 20% e il 30% di più che in un locale di Milano analogo. E anche gli affitti e i prezzi delle case sono tornati ai livelli prima della crisi. Con la differenza che, dopo lo shock dei mutui facili e il crollo del mercato immobiliare, le banche fanno credito con molta più difficoltà. Va da sé che la situazione attuale, con i prezzi alti e un sistema creditizio asfittico, determini da un lato una penuria di abitazioni disponibili e dall’altro il fatto che in città ci siano numerosi vecchi appartamenti vuoti, senza che qualcuno possa permettersi di ristrutturarli e di abitarli.
Le case storiche di Dublino raramente sono più alte di due o tre piani, e non sono molte quelle di quattro piani. La cosa vale per le abitazioni di Temple Bar e dell’area medievale della città, costruite con i tipici mattoni rossi, e spesso con i cavi dell’impianto elettrico esterni e penzolanti lungo i muri, per gli eleganti edifici georgiani a nord del centro e per le case che si trovano vicino alle rive del Liffey e nelle vie periferiche. Questo aspetto mi sembra una proiezione della storia della città, del suo essere stata a lungo, attraverso periodi di espansione e di depressione, una capitale dimezzata e sotto tutela, sottomessa a una potenza straniera. E mi sembra opportuno riflettere su queste cose proprio quest’anno in cui ricorre e si ricorda il centenario della rivolta di Pasqua del 1916, a cui seguirono le lotte per emanciparsi dal dominio britannico e ancora stagioni lunghe di lacerazioni e scontri nell’isola. Tutto questo nei due secoli passati ha favorito, se non determinato, la sorte di emigranti di moltissimi dublinesi e irlandesi, che sarebbero stati poi importanti nella storia e forse anche nello spirito, in una parte dell’identità nazionale, se così si può dire, degli Stati Uniti d’America.
Nei mesi scorsi il governo guidato da Enda Kenny ha varato un piano per contrastare l’emigrazione, riattivatasi a partire dal 2008. Osservando quest’ultimo periodo di crisi e difficoltà seguito alla crescita vigorosa durante gli anni ’90 e nella prima parte del decennio successivo, verrebbe quasi da pensare che la città, ciclicamente, si trovi di fronte ai suoi fantasmi, alla stasi o, se si vuole, alla paralisi, in quel caso però soprattutto della morale, raccontata da James Joyce in The Dubliners.
Forse la bellezza di Dublino sta proprio nella sua non bellezza relativa, in certi dettagli decadenti, in quello che, a causa della sua storia, le manca rispetto ad altre capitali europee, nella forza estetica e urbanistica che non ha. In centro gli edifici in grado di polarizzare l’attenzione del turista sono pochi. Tra questi ci sono il Trinity College, voluto da Elisabetta I alla fine del ‘500 e la medievale Christ Church Cathedral con la sua mole gotica e severa. E poi la Chiesa di San Patrizio, la cui prima pietra, per decisione dell’arcivescovo Anglo-Normanno John Comyn, risale al 1192. Sul retro c’è un piccolo cimitero di erba e lapidi grigie, dove, prima che a pregare, è facile scoprirsi in silenzio, a non pensare.
Forse la bellezza e il senso, se si vuole l’anima, di Dublino va cercata in alcune piccole vie, come ad esempio Moore Lane, Lana Ui Mhorda in gaelico, a nord del Liffey e a pochi metri da Moore Street, dove si tiene il più antico mercato di frutta e verdura della città. Ci sarebbe da sedersi su un marciapiede e restare ore a guardarsi attorno, provando a intuire il mistero e le stratificazioni del tempo di una strada come Moore Lane, nel centro di Dublino e nel 2016 ancora semifatiscente con i suoi punti di colore e di vita. Cedere all’azzurro di una serranda abbassata in pieno giorno, all’arancione sbiadito di una porzione di muro, al grigio di una piccola ciminiera, al verde e al bianco di un altro muro di mattoni e alle piante selvatiche che spuntano forti e libere in cima. E avendo il tempo di farlo, ci sarebbe da guardare Moore Lane quando tutto questo è appiattito e schiacciato dal grigio uniforme del cielo e quando invece è sovrastato e amplificato da un azzurro carico e da nuvole bianche, vaporose e veloci.
Oggi Dublino appare diversa da come era l’ultima volta che ci ero stato, nell’agosto del 2007, appena prima della crisi. A quel tempo la città veniva da almeno un ventennio di crescita forte e costante, i giornali si erano inventati la definizione di Tigre celtica, sembrava che Dublino e l’Irlanda tutta si fossero liberate della loro storia, ribaltandola, capovolgendola. Le cose non stavano così, come si sarebbe visto di lì a poco. Eppure in quel periodo la sensazione, confermata da chi viveva e lavorava in città, sia che fosse assunto in una multinazionale dell’internet, sia che facesse l’insegnante, era che la vita fosse facile e a portata di mano, che tutto fosse possibile. “A Dublino in quegli anni si è voluto troppo, si è andati oltre, si è peccato, se ha una logica vederla in questo modo, di ὕβϱις. Speriamo che abbiano imparato la lezione”, mi dice Gary McMahon, che si occupa di comunicazione e cultura per il Comune di Galway e che ha un passato da attore e da speaker radiofonico.
Scambio alcune parole con i tassisti, che spesso sono una buona cartina di tornasole dello stato di un luogo. Con sfumature che variano inevitabilmente da persona a persona, mi restituiscono impressioni simili: da un paio di anni le cose vanno meglio, il turismo ha ripreso a girare, ma la situazione non è più quella di prima, la gente ora sta più attenta, non spende più così facilmente. “Perchè sei venuto qui a lavorare?”, chiedo una notte a un tassista nigeriano, che vive a Dublino dal 2001 e ora ha la doppia cittadinanza. “Non saprei dire, è difficile spiegare certe cose. Forse questo era il mio destino. Volevo andare a Londra, poi ho seguito il consiglio di un amico che stava qui e si trovava bene”, mi dice, come se volesse farmi capire quello che so già, ovvero che la mia domanda non ha una vera risposta.
Qualcosa di connesso con l’essenza della città resta visibile nel quartiere di The Liberties, a sud ovest del centro, non lontano dagli stabilimenti della Guinness. Il nome deriva dal fatto che gli Anglo-Normanni di re Enrico II d’Inghilterra, quando nel 1171 occuparono l’isola, concessero all’area alcune libertà commerciali e una giurisdizione autonoma. Qui Dublino mostra ancora il volto che aveva prima dell’avvento dell’economia globalizzata e ai lati dell’affollata Meath Street, in cui si tiene un popolare mercato, si affacciano piccoli negozi, lavanderie, minimarket cinesi, botteghe da barbiere e vecchi pub, dove è normale trovare silenziosi signori over 70 e ragazzi lentigginosi e dall’aria ribelle che bevono birra e si dividono il bancone.
The Liberties è un’area storicamente abitata dagli artisti e legata al design, alla creatività e alla pubblicità. In Thomas Street si trova il National College of Art and Design, la più grande scuola d’arte del paese, fondata nel 1746. Dal 2008 per alcuni giorni all’anno street artist irlandesi e di ogni parte del mondo si radunano in Francis Street e ricoprono di graffiti le pareti del parcheggio del Tivoli Theatre. I graffiti sono bellissimi e possono cogliere sorpresa il visitatore ignaro, che non si aspetterebbe di trovare tanto colore ad accendere i muri altrimenti grigi e dall’intonaco cadente di uno slargo che si affaccia su una strada semiperiferica. L’evento è organizzato da Olan O’Brien, il proprietario dell’etichetta discografica All City Records.
The Liberties, già polo di commerci e trasformazioni, nel nuovo millennio è diventato veicolo di altri cambiamenti, di altre innovazioni, come si dice nel linguaggio contemporaneo ibridato dalla κοινὴ del marketing. Il governo nel 2003 ha deciso di far nascere qui The Digital Hub, un distretto di start-up e aziende attive nel campo delle nuove tecnologie. Si tratta di una sorta di piccola Silicon Valley irlandese che ha finito per estendersi anche in un’altra area della città, The Grand Canal Dock, più vicina al centro e in riva al Liffey, dove ci sono le sedi di giganti dell’online, come Google, Facebook, Linkedin, Twitter e Airbnb, con la loro naturale forza di attrazione.
Il quartiere a prima vista sembra poter comprendere al suo interno The Digital Hub, senza farsene stravolgere, senza cambiare la sua forma, mantenendo i suoi ritmi e le sue consuetudini. La ragione dell’inerzia sta forse in quell’intelligenza implicita che attraversa la storia e che riguarda i luoghi, in base a cui i cambiamenti sostanziali avvengono gradualmente, impiegano periodi lunghi per andare dalla superficie alla profondità. “The Liberties conserva molto del suo spirito antico, i suoi abitanti sono liberi e orgogliosi, gelosi del loro quartiere e delle loro abitudini, qui il tempo passa lentamente”, mi confessa un dipendente di The Digital Hub, fermatosi a scambiare due chiacchiere con me, appena terminato l’orario di lavoro. E mentre lo ascolto e con la testa accenno un sì, non so bene se mi stia dicendo quello che pensa, o se stia condividendo una speranza o il suo modo di difendersi dalle cose, dalla realtà.
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