Urbanistica

Distopia urbana

8 Aprile 2019

Un abitante del futuro, ormai anziano, racconta come erano le città ai tempi dei suoi progenitori e come si è evoluta la città in cui risiede.

Ai tempi dei miei bisnonni, la città era un mondo.

Nella tua città nascevi, crescevi, studiavi, lavoravi e mettevi su famiglia; lì c’erano i tuoi genitori, i fratelli, i parenti, gli amici di una vita; lì, quasi sempre, morivi e venivi seppellito. Erano pochi quelli che si allontanavano e pochi anche quelli che arrivavano, di solito dalle campagne circostanti. Nella città trovavi tutto ciò di cui avevi bisogno: il cibo per nutrirti, gli abiti per vestirti, il medico per curarti, per il poco che era concesso a quei tempi; il mestiere di cui campare, la donna da sposare, la casa in cui abitare erano tutti lì, a portata di mano.

Dopo le due guerre le cose cambiarono: molte persone cominciarono a trasferirsi, per cercare fortuna sempre più lontano. Per loro sorsero nuovi quartieri nelle città, lontani dal centro, vicini alle fabbriche e alla campagna: palazzoni mai visti prima, spesso senza una piazza o una chiesa, con appena qualche negozio per le necessità più immediate.

La gente lavorava sempre di più, guadagnava e poteva permettersi un’automobile; ma non aveva più il tempo per andare tutti i giorni dal macellaio, dal panettiere, dal fruttivendolo e dal lattaio. Così nacquero i supermarket dove fare la spesa una volta la settimana, il sabato mattina: venivano costruiti subito fuori dalla città, dove si poteva circondarli di un ampio parcheggio gratuito, dato che era necessaria l’auto per portare a casa una scorta di cibo così pesante.

All’epoca dei miei genitori dalle città uscirono, dopo gli alimentari, anche tutti gli altri negozi: quelli di scarpe, di vestiti, di gioielli, di elettrodomestici, di mobili, vennero riuniti in giganteschi capannoni spersi in mezzo alla campagna, naturalmente insieme all’immancabile supermercato. Per la gente era comodo associare lo shopping alla spesa settimanale, potendo passeggiare da una bottega all’altra al riparo dalla pioggia, dal freddo e dal caldo; così, un po’ per volta la concorrenza spietata dei centri commerciali fece chiudere i punti vendita in città, lasciando intatti solo quelli dedicati ai beni di lusso per la clientela più benestante, che non ama mescolarsi ai poveracci.

Nel frattempo anche i lavoratori iniziarono a uscire dalla città, a migliaia ogni giorno: chi con il treno, chi con la macchina, chi con l’autobus. Man mano che la città si popolava, infatti, i quartieri periferici crescevano e le fabbriche, rimaste impigliate in mezzo ai caseggiati, chiudevano per essere trasferite un po’ più in là, dove prima c’erano i campi; alle loro spalle lasciavano edifici vuoti che, negli anni, sarebbero divenuti ruderi degradati e cadenti.

Col crescere della popolazione, gli spazi non bastarono più neppure per gli altri servizi. Ero un ragazzino quando l’ospedale della mia città fu spostato sui terreni paludosi della zona sud; nel giro di pochi anni persino gli studi medici traslocarono in massa nei centri commerciali, dove gli specialisti potevano visitare durante le poche ore libere dei loro pazienti, cioè la sera o il fine settimana.  Anche l’Università subì la stessa sorte: un sindaco intraprendente ebbe l’idea di portarla in una ex area industriale dove, diceva, ci sarebbe stato spazio per aule, campi sportivi, studentati e laboratori.

Quando mio figlio era ancora piccolo, dai quartieri scomparvero anche le scuole: non fummo contenti, ma ci spiegarono che era impossibile tenere tanti edifici scolastici aperti per così pochi bambini. Tutti gli alunni furono radunati in due o tre centri ai margini delle periferie e, siccome per noi genitori era scomodo accompagnarli e riprenderli ogni giorno, vennero costruiti convitti dove ospitarli durante la settimana.

Negli anni, la città si era andata riempiendo di spazi inutilizzati: superfici commerciali vuote, edifici pubblici dismessi, capannoni industriali abbandonati; ma gli imprenditori cittadini – i proprietari di quelle stesse fabbriche che erano migrate in mezzo alle campagne, trasformandole in zone industriali – trovarono presto il modo di rimediare. La mia città ha un bellissimo centro storico ed è ben collegata con un aeroporto e con un’importante metropoli: i miei concittadini più ricchi decisero quindi di puntare sullo sviluppo del turismo e sulla residenzialità di lusso. Nel centro antico i monumenti vennero restaurati e le case ammodernate per affittarle ai visitatori; le botteghe furono rimpiazzate da caffè e ristoranti. Nei quartieri semicentrali, al posto delle fabbriche in disuso sorsero parcheggi e residence eleganti, aree verdi e locali di charme; poco a poco, la crescita vertiginosa dei canoni di affitto costrinse i residenti più poveri a sloggiare e a trasferirsi nelle periferie più degradate, fuori dalla circonvallazione cittadina, mentre una legione di nuovi abitanti, provenienti dalla vicina metropoli, prendeva il loro posto.

Oggi la mia città è completamente diversa da quella che conoscevo quando ero bambino.

Il centro storico è accessibile solo ai turisti e ai pochi residenti: li chiamiamo ancora turisti, ma sono per lo più partecipanti alle convention aziendali che si tengono nelle location in cui la gran parte dei monumenti sono stati trasformati – a parte quelli che sono diventati showroom di famose maison di moda, frequentati da personal shoppers provenienti da tutto il mondo. E’ raro incontrare nostalgici visitatori, di solito anziani come me, che si attardano a contemplare le facciate dei palazzi storici con un velo di tristezza negli occhi…

I quartieri centrali sono invece diventati dormitori di lusso per una popolazione di cosmopoliti, che vivono praticamente all’estero: spesso sono fuori dal Paese per lavoro, si danno appuntamento con gli amici ogni weekend in una diversa capitale europea e trascorrono le loro vacanze in località esotiche; i loro figli studiano in college americani, i loro genitori sono ricoverati nelle residenze per anziani della Carinzia e, se si ammalano, volano subito in una clinica svizzera per farsi curare. L’accesso a questi quartieri è riservato a loro e a un esercito di fattorini robot, che ogni giorno consegnano pasti e acquisti di vario genere agli indaffarati portieri, anch’essi robot.

Le periferie come quella in cui vivo sono diventate una città a sé stante, ormai in rovina. Per noi residenti il problema più grande è muoverci: non possiamo più permetterci né un’auto, né una corsa sui taxi a guida autonoma che servono i quartieri ricchi; ci arrangiamo con mezzi pubblici sempre più scadenti, sopportando viaggi estenuanti per raggiungere i luoghi di lavoro, i negozi, l’ospedale, le scuole. Qui non c’è un filo di verde: gli alberi sporcano, richiedono manutenzione,  attirano animali e da tempo sono stati sostituiti con surrogati sintetici a forma di cupola piuttosto squallidi, che producono quel po’ di energia elettrica sulla quale possiamo contare. Le liti e la delinquenza sono all’ordine del giorno, perché gran parte della popolazione vive di un modesto sussidio statale che consente un’esistenza a dir poco grama; tanti sopravvivono mendicando e dormono nelle fabbriche ormai abbandonate.

Forse perché sto invecchiando, sento un gran nostalgia dei tempi in cui la città era una sola: c’erano, è vero, quartieri diversi per vocazione, ma erano vicini tra loro e sempre un po’ mescolati; i malati e gli studenti non erano ghettizzati fuori dalla cerchia urbana, in solitudine, ma le loro vite si intersecavano ogni giorno con quelle degli altri abitanti; ci si conosceva almeno un po’, mentre oggi nessuno sa nulla dei propri vicini di casa, fino a quando non commettono un reato e finiscono nel telegiornale. Oggi nei quartieri poveri tutto è ignobile, ma in quelli ricchi tutto è falso; e chiunque si sente irrimediabilmente solo.

Sulle nostre teste sfrecciano continuamente i supersonici in partenza e in arrivo dall’aeroporto: li guardo e mi chiedo, ma dove devono andare? Dove, se a questo mondo non c’è più una città che sia un vero luogo di vita?

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