Urbanistica
Arriva la Biennale di Architettura, il Padiglione Italia tornerà protagonista?
La storia della Biennale di architettura di questi anni è stata una sorta di un’affermazione internazionale. Prima la fondazione di un luogo di riferimento per il dibattito, con le architetture solenni, per quanto effimere, dei seriosi dai curatori italiani Portoghesi, Rossi e Dal Co. Poi l’epoca gioiosa degli archibaroni rampanti: disimpegno e spettacolo stimolato da curatori cosmopoliti, che rappresentavano la voglia di portare quello spirito del “nuovo” che da Le Corbusier in poi, è uno dei caratteri dell’architettura moderna/contemporanea. Questo percorso si è concluso in qualche modo con la sostanziosa edizione curata da Rem Koolhaas, che ha voluto essere l’esposizione di una ricerca e un bilancio mondiale: a cento anni del 1914. Ora si ricomincia dal fronte nuovo di Aravena e del suo impegno, che avremo modo di analizzare più avanti.
In quel virare verso una dimensione internazionale c’è però qualcosa che è andato perdendosi: la centralità del Padiglione Italia, che con una gran mossa la Biennale è risuscita a barattare, all’inizio del nuovo millennio, con due capannoni a termine percorso dell’Arsenale. Se già prima la partecipazione italiana non era certo letta come un contributo d’avanguardia – e fu in qualche modo all’origine di un apertura verso le curatele internazionali – almeno essa occupava una posizione che era difficile poter trascurare nella visita. Dopo lo spostamento tale partecipazione ha però subito la totale mancanza di considerazione internazionale, venendo di fatto esclusa da ogni dibattito.
Eppure da quando lo spazio dedicatole è stato spostato all’Arsenale, il ministero o gli organi centrali che si di volta in volta si sono occupati di programmare la presenza alla Biennale di architettura si sono dati da fare in modo molto più efficace e organizzato. Progressivamente sono state messe a punto delle procedure, per quanto ancora molto contraddittorie, di selezione. Un budget, per quanto scarso, è stato reiteratamente confermato. Con la pratica, si è cominciato a mettere a regime strutture di comunicazione e di allestimento permanenti, anche se ancora funzionanti in modo intermittente. Un accumulo di esperienze che sarebbe interessante che a questo punto il ministero, o chi per lui, riunisse in un archivio delle presenze alla Biennale, capace di accumulare in modo ordinato non solo i risultati espositivi, ma anche i materiali preparatori, la documentazione amministrativa e le testimonianze informali. In altre parole un luogo, virtuale o reale, nel quale mettere in evidenza il proprio importante e tutt’altro che effimero lavoro.
Questo percorso sembra ricevere un ulteriore avanzamento con l’edizione di quest’anno. Positiva è stata infatti l’impressione della presentazione ufficiale alla stampa di TAKING CARE, Progettare per il bene comune/Designing for the common good, il titolo ufficiale del Padiglione Italia alla Biennale Architettura 2016.
“Architettura come servizio alla comunità, cura degli individui, degli spazi, dei luoghi, dei principi e delle risorse. Per un’architettura che faccia la differenza”, è come TAMassociati, il team curatoriale di questa edizione, composto da Massimo Lepore, Raul Pantaleo, Simone Sfriso, descrivono il tema. Il tutto in un padiglione sostanzialmente diviso in tre sezioni. Una prima, teorico-argomentativa, introdurrà al “pensiero” sul bene comune, inquadrando come questo sia percepito e praticato nel nostro vivere quotidiano. Una seconda nella quale saranno presentati venti realizzazioni, esempi di buone pratiche, due esempi di “agire” per ciascuna di queste dieci questioni: legalità, salute, abitare città, ambiente, paesaggio istruzione, cultura, spazio pubblico, scienza, alimentazione, lavoro. L’intento di questa sezione, centrale nell’esposizione, sarà quello di presentare il progetto come esito dell’interazione di pluralità di soggetti. Essa sarà pertanto rivolta sostanzialmente a “incontrare” le istituzioni, mostrando loro come poter impegnare al meglio le loro risorse. Infine spazio all’azione per mezzo di cinque progetti di dispositivi mobili, containers carrabili e trasportabili, disegnati da giovani studi per conto di altrettante associazioni nazionali. Progetti che a fine esposizione verranno a queste affidati, ed eventualmente realizzati per mezzo dell’appello al crowfounding, proiettando la mostra verso il paese reale e fuori dal recinto della Biennale. Cosa questo significhi davvero, concretamente, lo capiremo all’apertura del padiglione, che peraltro si connota, in generale, per una certa costante ricerca della suspense, tanto che ad oggi non sono noti i nomi di opere e architetti presenti all’esposizione.
E su questo piano rientra un altro aspetto cruciale dell’esposizione, l’allestimento in forma di riciclo di materiali per mezzo di “tante piccole azioni di recupero e in uno spirito di sobrietà”. È stato annunciato, infatti, che saranno riutilizzati l’impianto d’illuminazione e alcuni pannelli in cartongesso della scorsa edizione, e che la collaborazione con l’Office of Public Works dell’Irlanda consentirà il riuso dei pannelli del padiglione di questo paese all’Expo per i supporti espositivi. Per quanto riguarda i costi il ministero ha messo a disposizione i soliti 400mila euro e il team ha coinvolto alcuni sponsor tecnici e finanziari, raggiungendo un budget di circa 800mila euro lordi.
La virata è di 180 gradi rispetto all’edizione precedente, se è vero che essa presentava pure le realizzazioni di architetti che in seguito sarebbero stati condannati per corruzione ed era stata assegnata senza concorso a un professionista affermato soprattutto in virtù del fatto che questa scelta assicurava la possibilità di recuperare i fondi per realizzare una mostra partita in ritardo. Durante la conferenza stampa una frase di Franceschini sembra però testimoniare la presenza di alcune incoscienti continuità. Parlando delle periferie il ministro ha ricondotto l’espressione “inserti” a Renzo Piano (alla riqualificazione delle periferie il padiglione dedica la sua attenzione), facendo in questo modo una sorta di lapsus. Inserti. infatti, era il titolo dell’allestimento dell’edizione precedente, curata di Cino Zucchi. O forse si trattava di una crasi, visto che Raul Pantaleo è stato chiamato a dirigere la nuova tappa dedicata a Marghera del lavoro dei giovani sovvenzionati con lo stipendio del senatore e ha pubblicato un libro, al quale sembra si ispirerà anche il catalogo della mostra, con Luca Molinari, già curatore del padiglione nel 2010.
Al padiglione italiano non sono mai mancati i buoni propositi, ma spesso si è assistito a uno iato profondo tra la seduzione delle proposte iniziali e gli esiti della realizzazione. Soprattutto il tono allestitivo è stato poco elegante e generalista, incapace di recuperare quella straordinaria raffinatezza della tradizione espositiva italiana. Tradizione raccontata ad esempio in un libro di Philippe Duboy uscito in questi giorni (Carlo Scarpa. L’arte di esporre, Johan & Levi), che forse ogni curatore dovrebbe leggere prima di operare in Biennale, anche se non interviene nell’esposizione d’arte.
L’approccio, le prospettive di contenuto, i buoni risultati organizzativi e le scelte di sostanza sembrano comunque aprire a un ottimo risultato. Speriamo che finalmente i visitatori avranno voglia di arrivare alla fine delle Corderie, di spingersi a vedere qualcosa d’irrinunciabile e di discuterne al mondo.
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