Urbanistica

Architettura, ecco la Biennale di Aravena: manca solo il padiglione italiano…

1 Settembre 2015

Aleandro Aravena ha finalmente cominciato a svelare qualcosa sulla Biennale di Architettura di Venezia che aprirà alla fine del maggio prossimo, la seconda a svolgersi sull’arco di sei mesi. Il curatore ha discusso ieri con la stampa la sua proposta, che avrà il titolo di Reporting from the front. Nominato a fine luglio, egli avrà complessivamente meno di un anno per preparare l’esposizione, una differenza notevole rispetto al suo predecessore Rem Koolhaas. L’architetto olandese era stato infatti fermo un giro pur di avere la certezza di ottenere due anni di tempo per preparare l’evento, declinando una prima offerta di curatela per l’edizione 2012, poi raccolta da David Chipperfield,.

Il filo rosso con le due precedenti edizioni non sarà comunque interrotto. L’intenzione di Baratta di continuare a proporre qualcuno capace di rispondere alla diffusa sensazione di scollamento tra architettura e società civile continua con la figura impegnata del curatore cileno – già Leone d’Argento per promettenti giovani architetti alla Biennale del 2008 per Elemental, la prima sotto la presidenza Baratta. Secondo il presidente della Biennale, a fronte di una società che pone domande sempre più pressanti l’architettura sembra rispondere solo con dei gesti, “concentrata in realizzazioni spettacolari con le quali singoli soggetti celebrano il proprio successo, o le proprie ambizioni”. Davanti a questa condizione il pubblico e suoi fruitori sembrano aver sviluppato “un atteggiamento passivo e rinunciatario che non si aspetta più nulla dall’architettura”, che non la vive più come “l’arte con cui i desideri, le aspirazioni, le necessità private s’incontrano con le aspirazioni e le necessità pubbliche”.

Per dare una risposta a questa riduzione dell’architettura, per andare oltre l’inutile cliché della popolarità e guardare alla realtà in una chiave propositiva, Aravena proporrà un’edizione attenta al sociale. Una Biennale di “esempi”, di casi che illustrano il modo nel quale il design produce un aumento di valore dell’esistente, implicando in una nozione ampia di guadagno, “nella quale la progettazione è vissuta come valore aggiunto e non come costo aggiuntivo o l’architettura come scorciatoia verso l’equità”. Esempi che non si fermano alla diagnosi dei problemi, ma che siano capaci di avanzare delle proposte dopo aver organizzato e compreso le dimensioni politiche, economiche, sociali e estetiche dei problemi. Esempi che indicano “cosa significa migliorare concretamente la qualità della vita mentre si lavora al limite, in circostanze difficili, affrontando sfide impellenti”, per “imparare da quelle architetture che, nonostante la scarsità di mezzi, esaltano ciò che è disponibile”.

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Il titolo presentato da Aravena per la sua Biennale fa sorprendentemente eco a quello Front to Rear di un intenso seminario preparatorio alla recente Architecture in Uniform: Designing and Building for the Second World War. Una mostra influente, curata da Jean–Louis Cohen, che ha girato le principali sedi espositive mondiali dedicate all’architetura, tra le quali anche il MAXXI di Roma. Dedicata a confutare l’interpretazione che durante il conflitto mondiale fosse avvenuto uno iato nell’avanzamento della produzione d’idee e di edifici nell’architettura, l’esposizione ha dimostrato invece che proprio gli specifici avanzamenti prodotti durante il conflitto furono fondamentali per il processo di modernizzazione e per spingere alla definitiva supremazia del modernismo in architettura.

Anche se il ruolo militare, ancora prima che militante, degli architetti risale perlomeno a Vitruvio – che fu probabilmente un geniere dell’esercito romano – e ai suoi estimatori rinascimentali – molti dei quali impegnati a costruire opere difensive, o macchine di attacco – il bisogno di sentirsi in prima linea da parte degli architetti è un modo frequente di esprimere “l’urgenza” della propria architettura e la propria necessità sociale.

Di sicuro con il suo contributo Elemental – dapprima configurato come la progettazione di strutture prefabbricate per alloggi sociali e poi diventato un più ampio lavoro di sviluppo e costruzione di progetti urbani strategici “per generare condizioni tecniche che possono garantire un effettivo processo di aumento di valore” nei processi sociali” – Aravena è stato cruciale nel riattivare la coscienza del ruolo del professionista in America Latina, anche se egli ne appare un portatore un po’ più “spettacolare” di alcuni suoi colleghi e amici meno conosciuti, come ad esempio i paraguayani Xavier Corvalan e Solano Benitez.

Oltre al cliché resta insomma da verificare in sede di mostra se l’architetto possa assumere un ruolo sociale sincero e non narcisistico anche fuori dalle situazioni di urgenza. In altre parole, è da vedere se Aravena declinerà l’esposizione solo in termini di soluzioni spaziali e interne alla disciplina, o integrerà nella visione della mostra anche il lavoro di interpretazione delle processi di produzione e delle tecnologie (non necessariamente nuove) che hanno rappresentato i due binari lungo i quali si sono mosse le edizioni Chipperfield e Koolhaas.

Detto questo va rilevato come l’incontro con la stampa è avvenuto in coda all’incontro tra il curatore e i rappresentati dei vari paesi che parteciperanno all’esposizione. La precedente edizione si contraddistinta infatti per un intensa collaborazione tra il curatore i paesi partecipanti con i propri padiglioni nazionali. Si è costruito così un dialogo tra contesti diversi e un approfondimento molto articolato del tema principale, forse uno dei veri risultati della maturazione dei rapporti tra curatore invitato e istituzione.

Se all’incontro non tutte le nazioni hanno inviato i loro curatori, tra loro di sicuro spiccava l’assenza di quello italiano. Proprio ieri scadeva infatti la deadline per la consegna delle proposte da parte dei candidati a curare il padiglione. Se nell’edizione precedente questa condizione ha contribuito a creare il paradosso del doppione con la sezione Monditalia della mostra principale alle Corderie. Ce se ne potrebbe infischiare se non fosse per il fatto che purtroppo da anni il padiglione italiano è marcato dal disinteresse internazionale. Non è chiaro se questo sia per provincialismo, o per l’eccessivo desiderio di voler presentare a ogni edizione lo “stato della nazione”, ovvero un quadro dell’attualità anziché proporre un’esposizione tematica che su una specifica e circoscritta questione e ricerca, un tema unico e semplice ma trattato come una mostra e non come un aggiornamento su una nazione litigiosa e capace spesso solo di appuntare delle medaglie d’oro sul proprio ombelico.

La scelta del curatore emergerà comunque tra poco dal lotto selezionato dal MIBAC tra una decina affermati architetti e urbanisti, equamente divisi tra i sessi per assicurare le “quote rosa”. Una lista che comprende, tra gli altri, due affermate professioniste come Benedetta Tagliabue (già allestitrice del padiglione curato da Sgarbi nel 2011) e Paola Viganò; il profeta del futuro Carlo Ratti; la squadra di Mario Cucinella e i ragazzi delle periferie del senatore Renzo Piano; una serie di milanesi capitanati da Stefano Boeri e che comprende Isabella Inti, Antonella Bruzzese, e i Fig di Fabrizio Gallanti e Francisca Insulza, oggi residenti in Canada.

È una bella sfida. Questa volta è probabile che, emergeranno i temi più che le figure, anche se il “ministero” costruisce sempre liste basate su profili esili per poi dar spazio a figure consolidate, capaci di portar soldi e certezze. Questo forse perché la copertura finanziaria di 400.000 euro che assicura è sentita sempre un po’ inadeguata rispetto all’obbiettivo. Non a caso nell’incertezza nell’edizione precedente si diede l’incarico direttamente a Cino Zucchi, che triplicò il budget. Se questo è il gioco delle grandi esposizioni, dove al curatore è chiesto non solo di mettere le idee, ma anche di essere in grado di moltiplicare il jack pot, forse proprio la nomina attuata da Baratta di qualcuno affermatosi anche alla luce della Biennale, potrebbe aiutare a far capire quanto sia rilevante l’accumulazione di sapere e le capacità di costruire figure e percorsi di ricerca nel tempo

L’importante è che vinca la Biennale, “l’istituzione veneziana che il mondo ci invidia” e che tutti continuano a copiare, ma che continua a proseguire i suo lavoro senza sponsorizzazioni ambigue. Una Biennale sempre più partecipativa, che continuerà a sviluppare delle sessioni e a trasformare i suoi siti espositivi in un campus nel quale aumenteranno i “sabati dell’architettura”, ovvero gli incontri, conferenze, seminari, workshop aperti a chiunque voglia cercare un dialogo ufficiale con il curatore e le istituzioni e i temi proposti dalla mostra.

 

(In collaborazione con Carlo Biasia, fotografie di Carlo Biasia)

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