Urbanistica
Architettura, Biennale di Venezia 2018: sarà l’elogio della consuetudine
Nella prossima Biennale di architettura non troveremo delle novità. Non assisteremo a un evento-rivelazione per la storia dell’architettura. Non saranno le innovazioni o le sorprese a stupirci. Quel che le due curatrici, Yvonne Farrell e Shelley McNamara, ci offriranno sarà qualcosa di diverso, dello spazio libero, o meglio, con una densa locuzione inglese che chiede di tener rigorosamente unite le due parole, del freespace. Spazio, di qualità, reso disponibile grazie all’abilità dei praticanti la più politica delle arti: quella del costruire.
Per il duo irlandese, una grande esposizione come quella veneziana deve essere dedicata a presentare la “generosità di spirito e il senso di umanità che l’architettura colloca al centro della propria agenda, concentrando l’attenzione sulla qualità stessa dello spazio”. L’architettura deve essere qui nella sua qualità di “dono di spazi liberi e supplementari a coloro che ne fanno uso”, come “capacità di rivolgessi ai desideri inespressi dell’estraneo”, come “enfatizzazione dei doni gratuiti delle natura, quale quello della luce del sole, lunare, dell’aria, della forza di gravità, dei materiali, delle risorse naturali e artificiali.”
Forse a molti tutto questo suonerà come un ingenuo e obsoleto programma neo-umanistico, che echeggia alcune riflessioni dell’inizio della metà degli anni Novanta, proposte da teorici come Sola-Morales e dai recuperi dell’abitare heideggeriano in chiave neo-tettonica. Una sorta di riproposizione della valore della bellezza che anche i senatori più scaltri hanno imparato a usare come argomento per salvare il mondo. Qualcosa verso la quale i giovani engagé storceranno il naso, perché priva di impegno e ricerca verso le urgenze del mondo e il sol dell’avvenir. Un recupero dell’architettura “cosa costruita”, professionale e tecnica, che molto disturba la ricerca di multidisciplinarietá e di multiculturalismo oggi così tanto perseguita dalle cosiddette scuole d’avanguardia quanto dai social-blogger.
Eppure il discorso di questa coppia di mezza età – dal aspetto tanto indifferentemente fuori moda da aver stimolato la solita affettuosa irriverente ironia dei corridoi veneziani a ribattezzarle “le maranteghe” – ricorda molto un saggio di qualche anno fa, Sulla bellezza e sull’essere giusti (On beauty and been just). Quel libro non evocava la ricchezza del lusso, o il fatto che dal bello sono esclusi i meno abbienti. In esso, invece, una celebre storica dell’arte che aveva sempre convissuto con le spiegazioni colte delle ricerche accademiche, Elaine Scarry, difendeva i motivi della presenza della bellezza nell’arte. A rischio di essere banale, analizzava la bellezza cercando di afferrare il bisogno che abbiamo di convivere con cose gradevoli e capaci di metterci di buon umore e, attraverso di esse, di testimoniare la possibilità di diventare qualcosa di migliore. Del libro della Scarry, rimanevano impresse le pagine in cui venivano descritte le palme di Matisse. La persistenza con la quale il pittore francese aveva insistito a restituire il modo nel quale le loro foglie raccoglievano e diffondevano la luce del sole. La ricerca del gusto in qualcosa di semplice, eppure espressione di ottimismo e, per dirla alla Pasolini, dell’“ineffabile bellezza del creato”.
Che le Grafton – per chi non lo sapesse, questo è il nome con le quale lo studio delle signore di Dublino sono conosciute nel mondo – evochino il fattore luminoso è dunque tanto un atto reazionario (“l’architettura è il gioco sapiente dei volumi sotto la luce” non era forse il motto dell’avanguardista Le Corbusier già all’inizio del secolo scorso?), quanto qualcosa che ci pare offensivo davanti alla diffusione difficoltà abitative.
Eppure chi storcerà il naso davanti a tanta supposta assenza di novità dovrà forse capire che il ciclo del “nuovo”, a Venezia si è concluso un paio di edizioni fa. Più precisamente nel 2014, con la celebrazione del tramonto del progetto moderno nella mostra preparata dallo staff di OMA, in coincidenza con l’anniversario dell’inizio del primo conflitto mondiale. Da lì in poi, da quell’edizione Kraftwerk – come la definì allora il presidente Baratta – abbiamo assistito a un fiorire esponenziale di -ennali dedicate all’architettura che ci hanno portato a dimenticare l’eccezionalità, a scordate le sorprese, a restare indifferenti davanti un continuo inventarsi di pretesti ad esporre l’architettura.
Oslo, Lisbona, Chicago, Lione e presto Seul, sgomitano per inventarsi novità che cercano di tenere il passo al “project of the week” delle piattaforme web dell’architettura. Città senza democrazia, come Istanbul, invitano principi senza democrazia dalle grandi università americane a spararla più grossa. Flussi di ricerche iperboliche dei dottorandi più bravi del mondo, si guardano l’ombelico per far fronte al comunicato stampa del più mirabolante progetto di nuove torri turbinanti. Un universo di esibizionismo architettonico che si basa sulla pretesa di inventare con costanza ciò che è rilevante ogni tre mesi e nel quale accade perfino che – in un contesto disciplinare fatto in massima parte di competizione e rivalità, in cui non esiste alcun sapere cumulativo – le semi/bi/tri/quadri-ennali diventino esse stesse un oggetto di discussione, con seminari, incontri e sofismi vari ad esse specificatamente dedicati.
Nulla di negativo in tutto ciò, il mondo è bello perché vario, ma la conseguenza è che a Venezia il modello del “nuovo”, dell’ultima recente notizia, della scoperta dell’acqua calda e di quella pesante, non può più essere dominante. Se la Biennale di Venezia, grazie alla sua storia e alla sua dimensione, non teme la competizione, risulta certamente mutata nel suo ruolo di emettitore di novità e di campo di ricerca dell’insolito, da parte di questa dispersione di intenti intensa quanto vorace di attenzione.
Recentemente ho discusso di questo problema con il curatore di una di queste importanti recenti -ennali, la cui risposta alla domanda se non fossimo stanchi di tutte questi eventi è stata: “Sì, siamo stanchi di tutte queste Biennali, ma ci sarà sempre bisogno di mostre”.
Correggerei questa impressione aggiungendo che abbiamo, forse, bisogno di mostre, perché siamo più diventati più veloci e sdrucciolevoli d’un tempo. Perché leggiamo meno e più rapidamente, perché preferiamo percorrere e vedere anziché soffermarci. Surfiamo sulla superficialità delle cose e il display vince su tutto. Questo dominio non è di per se positivo o negativo, è piuttosto una condizione alla quale ci stiamo adattando e il competere tra attrattori di attenzione mobile fa parte dello sforzo di capire come percepiremo le opere d’arte nell’epoca della loro diffusa riproducibilità digitale.
In questo momento di transizione è certo che la continua proposta di urgenze, non fa che riproporre spesso le medesime questioni, i medesimi modi, spesso perché L’atteggiamento è quello di dire “gli altri non han capito nulla”, “io son più bravo e so farvi capire cosa conta”… Le stesse indagini più innovative e originali, finiscono così a disperdersi nel magma di quelle che, un bambino che correva felice tra i padiglioni dei Giardini, chiamava qualche settimana fa “stupidagginiiii!”
Insomma, al di là del fatto che ciascuno tenta di riprodurre il modello vincente veneziano, la ripetizione stanca e non aiuta a far emergere le differenze. Chi si ricorda ad esempio della splendida mostra del padiglione polacco sulle condizioni dei lavoratori dell’edilizia all’ultima Biennale d’Architettura di Venezia? Chi si ricorda più del contributo fondamentale dato dai Rotor al tema del riuso nella prima edizione della Triennale di Oslo? Chi si ricorda che essa doveva iniziare un approccio che avrebbe dovuto connotare nel tempo quella manifestazione?
La Biennale di Venezia come forza creatrice persistente sta invece nella consuetudine. Consuetudine che diventa uno strumento di sperimentazione per temi e questioni esterni alla manifestazione. Temi e questioni che non possono più essere quelle dell’architettura stessa, ma che per mezzo di essa diventano significativi. Questi temi sono quelli del rapporto tra manifestazioni artistiche e spazio urbano, della relazione tra esposizioni e turismo, della mutazione delle città per mezzo del connubio arte contemporanea / fruizione popolare. Proprio perché Venezia è avanguardia resa consuetudine (da l’ameno tre secoli di dinamiche urbane e da oltre cento anni di mostre internazionali) essa può accogliere cosa le Grafton proporranno senza l’ansia di dover rinnovare. Può offrire al pubblico questioni apparentemente più semplici e cercare di lavorare più di altri sulle dinamiche e la fruizione dei grandi numeri e del pubblico generico. Al pubblico non resta da sperare che “le maranteghe”comprendano appieno questa condizione espositiva istituzionale e diano libero spazio a una riflessione mirabolante e illuminante quanto le palme di Matisse.
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