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Architect: an extraordinary commonplace
Guardando il video che gira in rete in questi giorni – di cui hanno parlato con precisione e dovizia Michele Fusco e Gian Marco Annese – colpisce che una delle figure scelte sia un architetto (o un ingegnere, poco importa). Colpisce perché ogni volta che bisogna pubblicizzare un prodotto – che sia immateriale come quello promosso dal video in questione o un bene di spiccata natura commerciale – la figura dell’architetto spunta fuori. Forse per il suo appeal. Forse per la sua aura carica di creatività e savoir faire. Giovani progettisti che grazie alla velocità della rete possono recarsi in cantiere con il tablet per fare vedere all’idraulico perplesso come deve posizionare lo scarico del bidet. Oppure architetti giovanili – in Italia si è giovani architetti fino ai 50 anni – che fanno riunione in terrazza aspettando che la moglie di uno di loro porti la morbida tortina capace di sbloccare l’empasse creativa. Per non parlare dell’agitato architetto che, dopo avere presentato il modello di un edificio a un gruppo di attempati committenti , brinda felicemente rilassato con un bell’amaro. E di esempi se ne potrebbero fare a bizzeffe. Certo, a leggere le dichiarazione del presidente del Consiglio Nazionale degli Architetti o dell’Inarcassa, c’è poco da brindare. Il 27% dei colleghi stazionano sotto la soglia della povertà, soltanto lo 0,7% riesce – per questioni legate all’organizzazione degli studi italiani – a partecipare alle gare per i lavori pubblici. Il patto di stabilità ha bloccato qualsiasi iniziativa pubblica e anche i privati hanno perso la verve. I neo diplomati sembrano aver capito la discrasia tra immagine e realtà facendo segnare una flessione di circa 40% nelle iscrizioni alle facoltà di architettura (i dipartimenti, pardon). Insomma una situazione non proprio idilliaca.
Ma allora cosa fa dell’architetto un luogo comune per la promozione commerciale? Perché i creativi continuano a propugnare, nel 2015, l’immagine del progettista quale testimonial commerciale? Probabilmente perché siamo tanti (secondo l’ultima indagine CRESME gli architetti italiani sono 152000 e rappresentano il 27% dei professionisti europei, Turchia inclusa), curiosi e sempre affamati di innovazioni tecnologiche. Quindi il pubblicitario italiano vede nell’architetto un perfetto consumatore, noncurante del dato economico e nonostante tutto legato al superfluo indispensabile. Rappresentando, però, un soggetto, ancora troppo simile al Rambaldo Melandri di Amici Miei (squattrinato ma con stile) o al Giorgio, genero a carico in Così parlò Bellavista, sempre elegante e altezzoso seppure disoccupato. Chissà se, prima o poi, anche gli art director si accorgeranno del cambiamento in corso nella professione: non più legata alla figura demiurgica ma ai collettivi e agli studi multidisciplinari, non più rispondente ai luoghi comuni più triti (lascialo stare, lui pensa soltanto all’architettura) ma carica di nuove istanze e necessità, pronta a sfruttare al meglio le opportunità (poche e in costante calo) che il mondo del lavoro offre.
Insomma in questa costante corsa a risincronizzare il paese con la realtà, chissà che la pubblicità cambi punti di vista, emancipando le donne dallo scegliere i detersivi per i piatti e rappresentando gli architetti in una frenesia non patinata, ma comunque soddisfacente.
Allora si che potremmo brindare con bell’amaro. Cosa volete di più dalla vita?
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