Infrastrutture

Ai distretti industriali serve qualcosa di più d’una bretella autostradale

20 Novembre 2015

[*] Ha senso ostinarsi nel voler “sbloccare” un progetto infrastrutturale sul tavolo da decenni, mai realizzato, e nel frattempo invecchiato? La vicenda della cosiddetta “bretella” autostradale Campogalliano-Sassuolo ci offre un buon caso di studio per discutere del tema, poiché richiama molte delle questioni che hanno animato (e tuttora animano) nel nostro paese il dibattito sullo sviluppo dei distretti industriali e sul loro bisogno d’infrastrutture.

L’opera in questione ha dimensioni contenute: un raccordo di appena quindici chilometri tra l’attuale svincolo A1–A22 (poco a Ovest del centro urbano di Modena) e il distretto ceramico emiliano, il cui progetto affonda le radici negli anni Ottanta ed è stato oggetto di diversi studi e valutazioni nel corso degli ultimi vent’anni. Un lungo e controverso iter, che pare aver finalmente agganciato una fase di risolutiva accelerazione – stando alle parole del Ministro Graziano Del Rio, intervenuto a Bologna lo scorso 29 settembre nel convegno inaugurale della fiera Cersaie – circa l’avvio del cantiere in tempi certi e rapidi.

Le parole del ministro Delrio possono avere confortato l’anima di Confindustria riconducibile al settore delle costruzioni: un mondo ampiamente rappresentato nella società di progetto preposta alla realizzazione dell’autostrada, che intravede in quel tradizionale cantiere un’occasione di sopravvivenza nella crisi. Le stesse parole, tuttavia, non possono che apparire un passo indietro alle orecchie di quegli abitanti, di quelle imprese e di quegli amministratori del comprensorio ceramico emiliano che hanno ormai da tempo imboccato la via di una non facile transizione – per dirla con le parole di Aldo Bonomi – tra un modo di essere distretto industriale che ormai “non è più”, e un modo di essere città-distretto che tuttavia “non è ancora”. Una transizione che implica l’adozione di una rinnovata agenda strategica, nonché – a nostro avviso – la laica revisione di ciò che fino a ieri veniva ritenuto di priorità per lo sviluppo. Due principali caratteri – noti, e in parte già trattati da un articolo ospitato su Gli Stati Generali – di tale transizione possono essere qui richiamati.

Da un lato, un riposizionamento verso l’alto del prodotto ceramico medio: minori volumi spediti, maggiore valore aggiunto, mercati più vasti che impongono diverse scelte logistiche, tra cui la realizzazione di stabilimenti vicini ai mercati di sbocco o l’accorpamento dei piccoli impianti locali in strutture di maggiori dimensioni. Tre fattori che spingono verso una logistica più efficiente, con centri di consolidamento delle spedizioni e minore presenza di mezzi sulle strade.

Da un altro lato, la necessità di attrarre capitale umano più qualificato rispetto a quello impiegato nell’industria ceramica del passato, da attuarsi tramite una modernizzazione dell’offerta formativa secondaria e terziaria, più moderni collegamenti con le grandi reti (alta velocità e aeroporti – proprio di questo si discuterà tra pochi giorni a Reggio Emilia) su cui si muove la maggior parte del traffico d’affari, e – last but not least – un’urbanistica che costruisca paesaggi più abitabili in territori sui quali ancora oggi grava un debito ambientale pesantissimo (il Ministero della Salute include il distretto tra i 44 siti più inquinati del paese).

In questo quadro di senso sono almeno tre gli aspetti della “bretella” in discussione che appaiono particolarmente critici.

Il primo riguarda la presunta utilità dell’opera per collegare il distretto con l’Europa. Ipotesi in contraddizione con le maggiori scelte infrastrutturali fatte sia dal Governo Italiano che dall’Unione Europea con la collaborazione dei paesi confinanti dell’arco alpino: i tunnel di base (Frejus, Brennero, Gottardo, Lotschberg) vanno nella direzione di rendere più conveniente il trasporto su ferro attraverso le Alpi. Le altissime tariffe per il transito dei mezzi pesanti in Austria e Svizzera fanno il resto: in questi paesi, il 45% delle merci viaggia su treno, con un trend di crescita negli ultimi anni (Eurostat). I mezzi pesanti sono dunque spostati su treno già al confine italiano, con una perdita di tempo e un ulteriore passaggio logistico che non appare giustificato, poiché finisce per rendere meno efficiente la catena logistica del distretto.

Un secondo aspetto riguarda il finanziamento dell’opera. Il suo costo, lievitato dai 178 milioni del 2001 ai 598 milioni del 2013, sarebbe diviso in 215 milioni di finanziamento pubblico e oltre 300 milioni d’investimento a carico di Autocs S.p.A., la società di progetto di cui Autobrennero S.p.A. detiene il 51% della azioni. Quest’ultima, concessionaria dell’autostrada A22, per oltre l’80% in mano pubblica, per effettuare questo investimento sta trattando con il Governo per ottenere il rinnovo senza gara della concessione autostradale: per ripagare l’investimento evidentemente non sono sufficienti i pedaggi previsti sulla “bretella”, ma servono quelli di tutta la A22. Casi recenti, dalla BreBeMi (che doveva essere la prima autostrada realizzata con capitali privati – premessa falsa in partenza visto l’intervento della BEI –, ma che a causa di una grossolana sovrastima del traffico è stata soccorsa con oltre 300 milioni di euro pubblici e potrebbe essere completamente rilevata dallo Stato per oltre 2 miliardi di euro), alla TEEM, alla Cispadana (il costo, lievitato a oltre 1 miliardo di euro, ha già fatto fuggire i presunti investitori privati), dovrebbero portare allo scetticismo rispetto al piano finanziario, vista anche la presenza di una superstrada Modena-Sassuolo (16 km in sede propria, senza pedaggio), che così come la “bretella” collega l’area di Modena Nord con la pedemontana. Il costo di questo modello di project financing, quindi, sembra avere ampie ricadute sulle casse pubbliche.

Un terzo e ultimo aspetto riguarda l’incoerenza tra il problema della congestione nel distretto, rilevato da molti analisti lungo l’asse est-ovest (sono circa 300 i punti di presa e consegna distribuiti lungo la SP 467, l’attuale “dorsale” del distretto, che gli operatori della logistica chiedono di fare lavorare h24), e un tronco autostradale nord-sud che si attesta “brutalmente” su una strada già congestionata (a testimonianza di ciò si può citare il recente rapporto curato dal consorzio Aaster, che intervista una ventina tra i principali portatori d’interesse del comprensorio, amministratori e imprenditori, molti dei quali espongono forti dubbi sull’utilità della “bretella”). La nuova autostrada andrà quindi a insistere su un asse che non è ritenuto problematico dagli attori economici a cui l’opera si rivolge, senza apportare miglioramenti all’asse pedemontano, considerato invece critico dagli operatori del distretto, e anzi potenzialmente incrementando il traffico che viene scaricato sulla pedemontana stessa.

L’affermare che la “bretella” è un’opera obsoleta e che gli oltre 500 milioni di risorse pubbliche lì destinati vanno dirottati su altre operazioni più strategiche non è allora inutile “benaltrismo”, ma un dovere civile per chiunque abbia minimamente a fuoco i passaggi di modernizzazione che la città-distretto si troverà a dover compiere – senza alternative – per scongiurare declino e marginalizzazione.

Alcune di queste operazioni sono in discussione da tempo, altre sono state illustrate al convegno “Obiettivo sviluppo” ospitato proprio a Sassuolo durante lo scorso Giugno.

Per gli abitanti, presenti e futuri, un collegamento tra la stazione Mediopadana AV e la città di Maranello mediante una linea di tram-treno che riutilizzi il tracciato ferroviario esistente tra Reggio Emilia e Sassuolo, e un analogo collegamento in tram-treno tra il distretto tessile di Carpi e il grande plesso d’istruzione scolastica superiore a Sud di Sassuolo, in riutilizzo del tracciato ferroviario esistente tra Carpi, Modena e Sassuolo. Stiamo parlando di un bacino di oltre 500mila abitanti e 200mila addetti che potrebbe essere dotato di collegamenti in sede propria, frequenti, economici e affidabili con le reti di trasporto nazionali ed europee. Infrastrutture di trasporto che potrebbero avere il doppio ruolo di catalizzatori per la rigenerazione di vaste porzioni urbane, rendendo queste ultime maggiormente attraenti per un capitale umano sempre più attento alla qualità della vita del luogo in cui decide di stabilirsi. Che le infrastrutture di trasporto collettivo, specialmente su ferro, possano generare questo circolo virtuoso è ormai dimostrato da innumerevoli progetti in tutto il mondo.

Per quanto riguarda le merci, la realizzazione di un collegamento ferroviario tra gli scali di Marzaglia e Dinazzano, da attuarsi con un’opera integrata a una più ampia sistemazione paesaggistica e idraulica del fiume Secchia sul suo versante reggiano (ove è già esistente un ramo ferroviario sottoutilizzato, fino alle acciaierie di Rubiera).

Per quanto riguarda la mobilità su gomma, scelte più moderne volte a massimizzare l’utilizzo di ciò che già esiste, in opposizione alla realizzazione di nuove infrastrutturazioni (di nuovo, è ormai ampiamente dimostrato che we can’t build our way out of congestion – la congestione non si risolve tramite nuove infrastrutture), quali ad esempio la realizzazione di una terza corsia di sicurezza e la riprogettazione degli svincoli di ampiezza insufficiente nell’attuale superstrada Modena-Sassuolo (tra tutti il nodo di Modena nord, per eliminare così quello che sembra essere il principale elemento di congestione su quell’asta). E l’ammodernamento, infine, dei molti nodi critici – rotatorie, raccordi, ponte sul fiume Secchia – dell’attuale SP 467 e il ridisegno del suo caotico paesaggio stradale in chiave di “strada-vetrina” dei ceramici evoluti.

Tutte operazioni che, tra le altre cose, costituirebbero un volano per il mondo delle costruzioni ben più articolato, sostenibile e strutturato rispetto al cantiere della controversa “bretella”, e che sul piano economico costituirebbero per il distretto un vantaggio competitivo indiscusso rispetto a una banale “cura della gomma”. Ancor più se abbinate ad altre tipologie d’intervento coerenti con l’evoluzione delle imprese e degli abitanti del distretto, quali la realizzazione di reti informatiche adeguate alla gestione in remoto di numerose attività di produzione e di logistica, e la realizzazione di una rete di mobilità dolce per rendere il territorio più fruibile e abitabile.

Se questo è il quadro, occorre allora domandarsi perché segmenti della politica locale e di Confindustria resistano nel chiedere tale opera, pur comprendendo – senza mai ammetterlo pubblicamente – molti degli argomenti da noi richiamati.

Temiamo ciò avvenga perché la “bretella” è – o meglio sembra essere – da oltre vent’anni l’unico progetto sul tavolo: l’unica richiesta “pronta” da fare al governo in una crisi nella quale non è semplice capire dove sia più opportuno investire, e in un clima politico in cui l’annuncio di un’infrastruttura di cemento immediatamente cantierabile – poco importa se, oggi, sbagliata – ha la meglio su una riflessione profonda circa i bisogni di un’economia distrettuale in transizione. Tutto ciò è comprensibile, ma non può essere condivisibile. Piuttosto, rivela una sconcertante miseria di progettualità dei territori, e dovrebbe spingere il Ministro Delrio – lodevole sostenitore delle opere “utili” e della “cura del ferro” – a intervenire dalla sua posizione in questo operoso territorio con infrastrutture all’altezza della sua rinnovata economia. E, soprattutto, di farlo prima che sia troppo tardi.

 

[* con la collaborazione di Claudio Borsari per le tematiche sul trasporto]

In copertina, foto di Cristiana Mattioli, 2014

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