Cooperazione
Accesso alla casa e qualità della democrazia
La “Carta dell’Habitat”, decalogo valoriale realizzato per Confcooperative dal professore emerito di Urbanistica alla Facoltà di Architettura al Politecnico di Milano Giancarlo Consonni, sottolinea come l’operato delle cooperative, di tutti gli operatori chiamati a disegnare la città e in primis dei decisori pubblici, non può ridursi alla scala della semplice casa ma si allarga sempre alla comunità e alla città nel suo insieme, non solo nel hic et nunc ma anche nel tempo.
Così come l’architettura è l’esito di un processo, il tema della casa è un tema olistico perché condensa molti aspetti e dimensioni: in primo luogo il territorio, la città, l’economia e la società.
La casa è connessa naturalmente al territorio: costruire una casa non è possibile senza un agire attento sul territorio, considerato non come mero oggetto ma come soggetto attivo. La casa è l’elemento primo della città: così come per l’architetto statunitense Louis Kahn, la stanza è l’inizio dell’architettura e la strada non è altro che una successione di stanze, potremmo parafrasare dicendo che la città non è altro che una successione di case.
Oggi più che mai il tema della casa impatta sull’economia. Se il settore immobiliare è sempre stato rilevante in questo senso, non è più solo la dimensione economica pura a manifestarsi: la casa è divenuta un asset strategico per molti investimenti e sofisticazioni finanziarie.
La casa infine ha un rilevante è imprescindibile impatto sulla società, essendo fondamentale per la sua strutturazione e definizione.
Da operatore cooperativo sono necessariamente attento all’architettura, fondamentale linguaggio in cui si esplica la nostra missione e la creazione di città, oltre che proscenio con cui “ci si mette in pubblico”. Non la vedo e interpreto però come punto di partenza ma come esito del complesso processo illustrato. L’architetto non deve essere un soggetto solipsista, focalizzato solo su se stesso, ma un attento osservatore della società. L’architetto deve tornare ad avere una funzione politica connessa a un “principio responsabilità” e non correlata, come ormai accade quasi sempre, alla soddisfazione narcisistica del proprio sé, tanto più nella ormai pornografica dimensione comunicativa.
Nelle città occidentali oggi si pone in maniera drammatica il tema – mai veramente affrontato e quindi mai risolto – della rendita, sia la rendita fondiaria determinata dai cambi di destinazione d’uso dei terreni, sia immobiliare come a Milano dove grandi rendite immobiliari si accumulano spasmodicamente.
Questo porta a una serie di esiti, fra cui il più evidente è la polarizzazione sempre più spinta fra chi ha accesso alla casa in proprietà o in affitto e chi fatica ad averla. Questa evidente polarizzazione a sua volta determina e alimenta un’ulteriore cesura, quella fra casa e lavoro. Per le ragioni sopra elencate e per tutti i fattori che abbiamo detto, si sta verificando un allontanamento dei lavoratori del ceto medio o medio basso tra il luogo di vita e il luogo di lavoro. Ne è vittima la classe media: i giovani medici, tutto il ceto degli insegnanti, professori universitari, professori delle scuole secondarie, fino ad arrivare al ceto medio basso e di quelle funzioni meno qualificate che hanno redditi più bassi. Tutte queste fasce di popolazione devono sorbirsi molteplici chilometri in maniera forzata per trovare un alloggio adeguato, con ripercussioni sulla qualità della vita e sulla struttura familiare.
Da qui nasce una prima riflessione che non può che avere a che fare con il tema della democratizzazione.
È una democrazia quella in cui i giovani e i meno giovani sono obbligati a sacrifici significativi, non scelti ma obbligati da un sistema di sviluppo urbano ineguale? Se a questa situazione uniamo un sistema di trasporti inefficace e inumano non possono che nascere rabbia e frustrazioni diffuse. Tutto ciò, ragionando a grandi balzi, si collega gioco-forza al populismo, che ne è esito primo e inevitabile. Come ricordava Giuliano della Pergola, professore di Sociologia Urbana e Rurale alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, nel suo saggio “Polis. Città, politica e pluralità”, quando si rompe il legame fra la città la politica e la pluralità si rompe la polis come culla della democrazia.
Se l’architetto come soggetto politico non ha chiaro che agisce dentro questi processi così complessi, che hanno un impatto fondamentale sulla vita delle persone e delle città, non svolge appieno la sua professione. Ma le responsabilità di questa condizione sono solo della politica o anche della società civile?
La strada più facile è sempre dare la colpa alla politica
A mio avviso c’è anche qualcosa di più ampio: la politica è ormai l’esercizio del poco coraggio, non ha la forza di prendere scelte impopolari e andare contro i cosiddetti “poteri forti” per optare per scelte più accomodanti. Invece dovrebbe avere il coraggio di ricostruire un tessuto sociale sul medio periodo.
Sulle politiche urbanistiche ha sicuramente delle responsabilità: dopo le grandi epoche dei Piani casi, Piano Fanfani, Inacasa, dopo la Legge 167 per l’Edilizia Economica popolare, si è cessato in toto di utilizzare l’urbanistica come strumento di azione politica, adoperandola piuttosto come leva di trasformazione urbana legata alla dimensione finanziaria e di immagine. Questo stallo è oggi comune alla maggior parte delle città occidentali.
La osannata società civile ha però anch’essa delle grandi responsabilità. La prima colpa è l’ingordigia. Siccome la rendita, per l’appunto, rende molto in epoche di mercato trainante, la società civile non si tira indietro; anzi spesso diventa soggetto che esso stesso spinge per politiche ineguali. In questo senso il mito della società civile va sfatato.
La seconda è la sordità ai rischi e la disattenzione che questa porta, perché a lungo andare anche le città eccellenti perdono le eccellenze, che sono fatte da uomini e donne che, non trovando condizioni adeguate, decidono di andare laddove le condizioni dell’abitare consentono una maggiore replicazione del sé e questo comporta un rischio a oggi più vivo che mai – di perdita di competitività. Se la società civile non ha presente questo e non rinuncia a un po’ di ingordigia a favore della vita dei suoi figli, alla lunga porterà all’impoverimento del tessuto sociale, economico e valoriale di una città, e a inaridire con esso.
La cooperazione nasce come soggetto sussidiario autentico che non è né stato né mercato ma è appunto un soggetto “temperato” e temperante, che agisce sul mercato ma che guarda all’interesse generale, quando si tratta di cooperazione autentica. Quindi una società e una città che ha più cooperazione, sarà anche una città che avrà più giustizia sociale e meno rancore, alla luce delle risposte ai bisogni legittimi dei propri figli, e sarà anche una città più democratica, educata alla democrazia anche nei processi di costruzione delle case. Non si avrà quindi solo una migliore qualità architettonica ma anche una migliore qualità democratica.
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