Urbanistica

A Lisbona con Pessoa e Saramago senza dimenticare la città che non c’è più

15 Luglio 2021

Lisbona sorge su sette colli ben più alti e ripidi di quelli di Roma e si affaccia sull’Atlantico, ovvero sul grande estuario del fiume Tago. Ha circa mezzo milione di abitanti, una superficie di poco superiore alla metà di quella di Milano e una reputazione diffusa, e meritata, di città bella e ricca di fascino. Difficile trovare un’unica spiegazione per questa fama. La sua conformazione fatta di saliscendi e terrazze panoramiche, i famosi miradouros, dalle meravigliose vedute? La tradizione del fado, la musica popolare che ogni sera si può ascoltare in molti locali dell’Alfama e del Barrio Alto? Queste e altre cose, senza dubbio, contribuiscono a far apprezzare la città. È probabile, però, che le ragioni siano anche altre e più profonde.

Lisbona a modo suo è una città di confine, una cerniera o un ponte tra due mondi, tra due poli della storia diversi e complementari. Molti aspetti di Lisbona sono duplici. È a pieno titolo una città europea, dentro la storia del Vecchio Continente, in cui si intrecciano cattolicesimo e illuminismo, ed è al tempo stesso da secoli connessa a terre lontane, come l’Africa e il Sud America. È una città in cui coesistono vie anguste e grandi spazi. Ha estati soleggiate, asciutte e ventilate, e nelle stagioni di mezzo è sferzata da correnti oceaniche che le rovesciano addosso burrasche improvvise e rendono spesso instabile il suo clima.

Per comprendere la città, inoltre, è importante considerare l’evento che più di ogni altro ne ha segnato la storia e riflettere su quello che accadde dopo quel giorno. Mi riferisco, ovviamente, al terremoto del 1° di novembre del 1755. Alle 9.40 di mattina, il giorno della festa di Ognissanti, mentre molti erano a messa, una scossa di intensità vicina ai 9 gradi della scala Richter fece tremare la terra. Seguirono altre due scosse di violenza analoga. Le torce e i bracieri accesi per via delle funzioni religiose fecero divampare numerosi incendi. Quindi, uno tsunami con un’onda alta 15 metri travolse buona parte di quello che restava, facendo altre vittime nella Baixa, la parte pianeggiante della città, e in riva al Tago, dove molte persone avevano cercato scampo. Il terremoto distrusse circa l’85% della città, causando tra i 60mila e i 90mila morti, pari a una percentuale compresa tra il 25% e il 30% della popolazione di allora.

Quella che vediamo oggi è, con poche eccezioni, una città tardo settecentesca e ottocentesca, la prima in Europa a essere stata costruita secondo dei criteri antisismici. Era sparita la città di prima, dall’impianto medievale e dai sorprendenti e raffinati edifici di stile tardo gotico e rinascimentale fiorito, o più precisamente manuelino, in onore di re Manuel I d’Aviz, detto l’Avventuroso o il Fortunato. Sotto il suo regno, tra il 1490 e il 1520, erano state realizzate la maggior parte delle costruzioni di stile manuelino, di cui la Torre di Belém e il Mosteiro dos Jerónimos, situate in una zona miracolosamente risparmiata dal cataclisma, sono gli esempi più belli tra quelli che ci sono rimasti. E al posto della Lisbona di prima, sotto la guida del primo ministro Sebastião José de Carvalho e Melo, conte di Oeiras e marchese di Pombal, ne fu costruita una tutta nuova, illuminista, razionalista e, dove possibile, ovvero nella Baixa, perfino squadrata e ortogonale.

A questo riguardo sono molto chiare, anche se poco generose con gli esiti della ricostruzione, le parole che José Saramago scrive in Viaggio in Portogallo (Feltrinelli, 2011, traduzione di Rita Desti), libro che, in modo significativo, si apre con il ricordo del collare indossato da uno schiavo, ovvero del lato più oscuro del passato coloniale, esposto nel Museo di Archeologia ed Etnologia: “Il viaggiatore risale per una di queste vie commerciali, con negozi in ogni porta e banchetti che fungono da negozi, e immagina quale Lisbona ci sarebbe adesso se non fosse venuto il terremoto. Urbanisticamente, che cosa si è perduto? Che cosa si è guadagnato? Si è perduto un centro storico, se ne è guadagnato un altro che, con il passare del tempo, lo sarebbe diventato. Non vale la pena discutere di terremoti né appurare di che colore fosse la mucca da cui fu munto il latte che fu versato, ma il viaggiatore nelle sue vaghe riflessioni, considera che la ricostruzione pombalina fu un violento taglio culturale da cui la città non si è ripresa e che dimostra continuità nella confusa architettura che, a ondate disordinate, si è diffusa nello spazio urbano. Il viaggiatore non anela a case medievali o risorgenze manueline. Verifica che queste forme di resuscitazione furono e sono possibili solo grazie al violento traumatismo provocato dal terremoto. Allora non crollarono solo case e chiese. Si ruppe un legame culturale tra la città e la sua gente”.

Praça do Comercio – Foto di Deensel

Un’idea, non fotografica, forse approssimativa, ma suggestiva, della città precedente al novembre del 1755 la si può avere visitando, presso l’ex convento Madre de Deus, il Museo Nazionale dell’azulejo, la forma ornamentale tradizionale dell’architettura portoghese. In una delle sale è custodito un grande azulejo, composto da 1300 piastrelle smaltate di bianco e di blu, e lungo circa trenta metri, che raffigura Lisbona così com’era nel 1738, quando l’opera fu realizzata. Il visitatore può consultare le didascalie poste sotto la composizione, che per ogni edificio pubblico specificano se si tratta di una costruzione tuttora esistente, perduta per sempre o ricostruita in modo diverso da quella che le preesisteva.

Il terremoto favorì una svolta anche nel campo della filosofia. Voltaire vi fece riferimento nel Candido e nel Poema sul disastro di Lisbona. L’arbitrio apparente delle morti e delle distruzioni lo indusse a prendere definitivamente le distanze dall’assunto sostenuto da Gottfried Liebniz nella sua teodicea secondo cui gli uomini di quel tempo vivevano “nel migliore dei mondi possibili”. Jean-Jacques Rousseau fu tra i primi a riflettere sull’impatto ambientale delle azioni dell’uomo e su come questo fattore avesse avuto un ruolo nel determinare l’entità della catastrofe: “La natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani e se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto”.

Durante la ricostruzione il processo di laicizzazione del Portogallo, avviatosi negli anni precedenti, ebbe un’accelerazione. L’occasione fu la stesura da parte del gesuita italiano Gabriele Malagrida, già missionario in Brasile e figura ecclesiastica di spicco a corte e nel paese, di un’omelia, poi pubblicata per i tipi di Manoel Soares, dal titolo Juízo da verdadeira causa do terremoto que padeceu a corte de Lisboa no primeiro novembro de 1755, in cui si sosteneva che il terremoto fosse una punizione divina per i comportamenti degli uomini e si esortava la popolazione alla penitenza e alla preghiera. Malagrida organizzò una processione nella città devastata, invitando, come gesto di espiazione, a non rimuovere le macerie e a non soccorrere i feriti. Era una posizione implicitamente critica verso il governo e in aperto contrasto con quella del marchese di Pombal che si era attivato personalmente per assistere i feriti e che, forte della sua sensibilità illuministica, sottolineava le cause naturali del sisma. Il marchese, peraltro, non si fece sfuggire l’opportunità di sfruttare situazione per risolvere a suo favore il conflitto di potere che lo vedeva opposto al religioso. Nel settembre del 1758 Malagrida fu accusato, con ogni probabilità senza esserne responsabile, di un attentato fallito nei confronti del re Giuseppe I e imprigionato. Quindi, dopo che il 3 settembre del 1759, il re firmò l’espulsione dei gesuiti dai suoi possedimenti, fu trattenuto nelle prigioni del Sant’Uffizio e processato. L’Inquisizione lo giudicò colpevole di eresia e di atti di libidine in base a due opere scritte in prigione, Heróica e admirável vida da gloriosa s. Anna e un Tractatus de vita et imperio Antichristi, la cui paternità è assai dubbia. Malagrida, dichiaratosi innocente, non volle chiedere perdono e fu condannato a morte. Il 21 settembre del 1761 venne garrotato e bruciato, insieme ad altre trentadue persone, nella piazza del Rossio. È singolare che per attuare una svolta illuminista si sia fatto ricorso alle prassi peggiori del Sant’Uffizio. Del resto, la Rivoluzione francese che sarebbe arrivata di lì a non molto ebbe nella violenza uno dei suoi tratti distintivi.

Uno dei luoghi che meglio rappresentano Lisbona e le sue stratificazioni, frutto della storia degli uomini e della violenza della natura, è la chiesa di São Domingos, che si trova a pochi passi da Praça Dom Pedro IV. Quasi altrettanto vicina è Praça da Figueira, da cui, se si alza lo sguardo, si può godere della vista del castello di São Jorge, che domina il colle lungo il quale si diramano le stradine dell’antico quartiere arabo dell’Alfama. La chiesa racconta meglio di altri luoghi i traumi che ha attraversato la città poiché conserva ancora la traccia di una singolare metamorfosi. Inaugurata nel 1241, e diversi secoli dopo sede dell’Inquisizione, subì gravi danni durante le scosse sismiche del 1531 e fu quasi del tutto distrutta durante il violentissimo terremoto del 1755. La ricostruzione terminò nei primi anni dell’800. L’evento che, però, la rende ancora oggi unica fu l’incendio che nel 1959 la divorò per circa sei ore. Sparirono dipinti di valore, statue e arredi sacri. La chiesa, riaperta al pubblico, dopo lunghi e difficili restauri, nel 1994, conserva i segni dell’incendio. Segni che i restauratori, forse pensando di dover lasciare un’impronta visibile di quello che era stato, non hanno voluto, e probabilmente nemmeno potuto, cancellare. Le colonne dell’unica navata, le pareti attorno all’altare, quello che resta delle volte e tutti i muri originari sono di un indefinibile color cenere, con sfumature che variano, in base a quella che fu l’azione del fuoco e ai riflessi della luce, dall’antracite al biancastro e al giallognolo. La visione è drammatica e illuminante insieme. Si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una ferita simbolo delle molte altre subite dalla città in precedenza. Il fatto che sia stata lasciata scoperta ci mostra la distanza tra le rovine della città che c’era o, meglio, tra le molte lacerazioni dolorose che lungo i secoli ci sono state e l’aspetto della città, bella e differente, che conosciamo.

Chiesa di São Domingos – Foto di Iamtomferry

Un altro edificio emblematico di Lisbona, in questo caso per via di un’assenza, di un vuoto che racconta una storia, è il Convento do Carmo, un’elegante chiesa gotica, fondata nel 1389 e sventrata dal terremoto del 1755, che si trova in largo do Carmo e dedicata all’ordine delle suore carmelitane. Molti altri edifici abbattuti dal sisma sono stati ricostruiti, raramente ricreandone l’aspetto originario, più spesso con forme nuove. Il Convento do Carmo, invece, dopo che i lavori di ricostruzione sono stati interrotti nel 1834 per via dell’espulsione degli ordini religiosi dal paese, ricorda ancora la devastazione di quei giorni apocalittici. I muri sono rimasti in buona parte in piedi, mentre le volta, tranne che nell’abside, manca del tutto, ad eccezione degli archi di pietra che si levano dalle colonne della chiesa. Il convento sembra un’istallazione della memoria, una traccia, palese anche per il più distratto dei turisti, della tragedia che fu, con il suo soffitto fatto di cielo, aperto e a modo suo esoterico, sia nei giorni di cielo azzurro e luminoso sia quando piove e grandi nuvole scure incombono.

Convento do Carmo – Foto di Luca Vaglio

Fernando Pessoa nella prima pagina della sua guida turistica Lisbon. What the Tourist Should See (Lisbona. Quello che il turista deve vedere, Passigli Editori, 2003, traduzione di Luca Merlini), in buona parte ancora valida, scritta in inglese nel 1925 e che avrebbe dovuto essere il primo testo di un vasto progetto editoriale, poi rimasto incompiuto, pensato per far conoscere il Portogallo all’estero, immagina che i visitatori scoprano Lisbona arrivando dall’acqua, cosa non infrequente in quel tempo in cui si viaggiava spesso per mare: “Si estende su sette colli – altrettanti punti di osservazione dai quali si possono godere i panorami più splendidi – il vasto, irregolare e multicolore insieme di edifici che forma Lisbona. Per il viaggiatore che vi giunga dal mare, Lisbona, anche vista in lontananza, sorge come una bella visione di sogno, stagliata contro un cielo azzurro splendente che il sole allieta con il suo oro. E le cupole, i monumenti, gli antichi castelli appena al di sopra dell’insieme di edifici, sono come lontani araldi di quel luogo delizioso, di quella regione benedetta. La delizia del turista ha inizio quando la nave si avvicina alla costa e, oltrepassato il faro di Bugio – piccola torre di guardia alla bocca del fiume, eretta tre secoli fa su progetto di fra’ Joao Turriano – appare la Torre di Belém, magnifico esempio di architettura militare del XVI secolo di stile romanico-gotico-moresco. Via via che la nave avanza, il fiume si fa più stretto per presto riallargarsi di nuovo a formare uno dei più vasti porti naturali del mondo, con ampia possibilità di ancoraggio anche per la più grande delle flotte. Allora, sulla sinistra, si staglia sulla collina l’insieme degli edifici. È Lisbona”. Leggendo le parole di Pessoa si può fantasticare di giungere a Lisbona via mare al tramonto, quando una calda luce solare illumina i tetti dell’Alfama e la cupola del Pantheon, già chiesa di Santa Engrácia, costruita tra il 1681 e il 1712, e dal 1916 convertita in luogo di sepoltura delle personalità illustri del paese.

Se si pensa a un centro possibile di Lisbona, questo non può che essere Praça do Comercio, la grande piazza, disegnata dall’architetto Eugenio dos Santos e Carvalho e affacciata sull’estuario del Tago, il cui nome richiama i traffici di merci verso India, Africa e Brasile di cui a lungo è stata il capolinea. La piazza, i cui lati misurano ciascuno 170 metri, richiama facilmente atmosfere metafisiche. È uno spazio maestoso, nel mezzo del quale c’è soltanto la statua equestre di Giuseppe I. È delimitata da edifici alla cui base ci sono dei portici e che terminano in prossimità del fiume in due torri imponenti che rievocano il Palazzo Reale Ribeira che si trovava in quel luogo. Nel lato opposto al fiume svetta un grande arco che collega Praça do Comercio a rua Augusta e alle altre vie che tagliano la Baixa in verticale e in orizzontale.

Praça do Comercio – Foto di Luca Vaglio

Stretta tra le colline che accolgono da una parte i quartieri del Chiado e del Barrio Alto e dall’altra quelli della Mouraria e dell’Alfama, all’estremo opposto della Baixa e raggiungibile in pochi minuti a piedi da Praça do Comercio, si trova Praça Dom Pedro IV, detta anche Rossio. La piazza può essere considerata una sorta di controcanto a Praça do Comercio, ovvero l’altro centro, il salotto buono, borghese e commerciale, dove ci si può incontrare per un caffè tra amici o per un pranzo d’affari. Spostandosi da un lato all’altro del Rossio si possono sperimentare almeno due delle numerose anime cittadine. Se, volgendo le spalle al colonnato del Teatro Nacional D. Maria II, si va verso destra ci si trova nel lato più europeo della piazza, confinante con il quartiere del Chiado. A sinistra invece la piazza confina con le vie della Mouraria, il quartiere in cui, dopo l’assedio che tra il 1° luglio e il 25 ottobre del 1147 vide la cacciata dei Mori e il ritorno di Lisbona sotto il controllo portoghese, vennero isolati i musulmani rimasti in città e che in seguito fu popolato dagli abitanti di origine ebraica. A destra ci sono bar e caffè eleganti e tradizionali oppure dal look moderatamente contaminato dal design contemporaneo. A sinistra, non lontani dalla chiesa di São Domingos e da A Ginjinha, un minuscolo negozio che vende Ginja, un liquore a base di amarena, si può pranzare, a prezzi più economici, in piccoli e affascinanti locali dall’atmosfera popolare, frequentati, oltre che dai turisti, in prevalenza da clienti di origine africana e brasiliana.

Sono stato a Lisbona lo scorso agosto e non l’ho trovata poi così dissimile dalla città dove ero andato in altre estati a cercare tracce di Fernando Pessoa a me ancora sconosciute e a rifugiarmi nel suo fascino multiforme, nelle sue giornate calde e asciutte e nelle sue notti fresche. A parte le distanze sociali da rispettare, le mascherine da indossare e un’esigua percentuale di locali pubblici chiusi, non era molto diversa da altre volte. Soltanto meno affollata. Gli alberghi e i ristoranti che negli ultimi anni erano presi d’assalto da quantità crescenti di visitatori provenienti da ogni parte del mondo avevano molti posti liberi. I clienti dei ristoranti mangiavano all’aria aperta, dove era facile trovare un tavolo. Le sale interne erano quasi sempre vuote. Tutto questo, paradossalmente, rendeva la città ancora più godibile. A cena, bevendo del vino e assaggiando una polpetta di bacalhau, poteva capitare che tra tavoli diversi, e distanziati, si scambiasse qualche chiacchiera di tema calcistico, mentre si guardava una partita della Champions League, trasferita a Lisbona per via delle necessità imposte dal coronavirus e trasmessa dagli schermi collocati fuori dai locali.

Rua do Diario de Noticias e rua do Norte, le vie della movida e del fado, inerpicate nel cuore del Barrio Alto e in ogni notte d’estate strabordanti di vita e di musica, attorno alle otto di sera si presentavano semideserte, per poi riempirsi, dopo le nove, di una piccola folla dagli slanci in parte sedati dal divieto di bere alcolici per strada. Anche la Leitaria Académica, un piccolo locale di largo do Carmo a metà strada tra un bar e un’osteria, la cui risorsa più apprezzabile sono i suoi tavoli all’aperto, poco dopo le undici chiudeva i battenti, mentre in precedenza l’avevo sempre trovata fino a tarda notte piena di persone che si erano trattenute a fare due chiacchiere e a bere una limonata, una birra, un bicchiere di Porto o qualcos’altro.

La pandemia ha sorpreso il Portogallo in una fase di espansione economica che, superata la crisi finanziaria del 2008, durava ormai da alcuni anni. I provvedimenti varati dal governo socialista, finalizzati a favorire gli investimenti immobiliari e a supportare il turismo, si sono rivelati efficaci. E se negli ultimi anni, anche a causa di una speculazione edilizia diffusa sia nel centro storico sia nelle aree periferiche, si è riscontrato un aumento dei prezzi, in parallelo si è verificato un incremento dei salari, delle pensioni e dell’occupazione. Inoltre, negli anni scorsi il governo è riuscito a contenere il deficit pubblico. Il prezzo da pagare per raggiungere questo risultato sono stati l’aumento della pressione fiscale e la contrazione degli investimenti pubblici.

In ogni caso, se il miglioramento recente delle condizioni del paese è innegabile, cercando di cogliere le impressioni dei lisbonesi sulla situazione economica e sociale generale, nonché su quella che li riguarda più direttamente, come singoli, si ricavano spesso risposte ambivalenti, quando non sfuggenti, e una tendenza a far trapelare un grado di insoddisfazione e di malinconia. E l’ambiguità delle risposte di sicuro non può essere spiegata, se non in minima parte, con un ipotetico tratto caratteriale nazionale segnato dalle note drammatiche e popolari del fado.

La difficoltà di raccontare la condizione di un paese, o di una città, e la tendenza parallela a farlo per approssimazioni o per luoghi comuni, è ben descritta in queste righe di “Il fixer”, un racconto di Marcello Sacco, giornalista e scrittore, da diversi anni residente a Lisbona, che fa parte del libro Mille per una notte e altri racconti da Lisbona (Tuga Edizioni, 2020), nel quale si tratteggia il ruolo del fixer, ovvero di una figura professionale a metà strada tra il corrispondente e il factotum da cui le redazioni dei giornali cercano di ottenere notizie e a volte anche conferme dei propri pregiudizi su quello che succede all’estero: “Raccontiamo la Lisbona che rinasce dopo un lungo periodo di sofferenza. Così mi hanno detto alla prima telefonata da Roma. Il Portogallo è stato uno dei paesi europei più bastonati dalla prima grande crisi dell’euro. Nel 2011 ha rischiato di uscire dallo spazio monetario unico, come la Grecia. Poi è arrivata la politica dei conti a posto, che non ha messo a posto quasi nulla, intanto ha prodotto un po’ di macelleria sociale e molta emigrazione. Vero? E dopo ancora è cambiato il governo ed è cambiata la musica. Vero? Adesso Lisbona rinasce. Vero? La voce all’altro capo voleva conferme, ma non attendeva risposte. Nelle redazioni si lavora così, sul filo di idee semplici. È un filo di cotone, ma racchiude il sunto della notizia. E quei sunti, scritti a caratteri più grossi e neri, nel gergo della carta stampata si chiamano catenacci. Ecco quindi che il filo di cotone di partenza, più che un filo di Arianna nel labirinto delle cose vere, diventa un catenaccio che ti lega mani e piedi al cielo delle idee pure. Devi raccontare una città e un popolo che rinascono. Se non rinascono, che ci siamo venuti a fare qui?”.

Verso la fine di agosto, in rua de Campolide, nel ristorante Katekero che, pur con una grafia ibridata dal marketing, in portoghese suona come “Qui ti voglio”, ho incontrato Antonio Cardiello, ricercatore presso l’Istituto di Filosofia dell’Università Nova di Lisbona e studioso di Fernando Pessoa, che mi ha restituito il suo sguardo su alcune metamorfosi recenti della città. E mentre per antipasto gustavamo un formaggio fatto con latte di capra e di pecora, Antonio, che vive a Lisbona da circa vent’anni e che ha maturato una sensibilità acuta per la facilità con cui il Portogallo viene influenzato dalle variazioni congiunturali, mi ha detto che “i danni economici dell’epidemia, che al momento paiono poco vistosi, potrebbero estendersi nel corso del 2021. Non mi stupirei se nei prossimi mesi numerosi esercizi commerciali che fino ad ora hanno resistito dovessero chiudere”. Il quartiere di Campolide, raggiungibile con i mezzi pubblici o in taxi, risalendo l’Avenida da Liberdade e poi dirigendosi verso la parte ovest della città, ha un’atmosfera tranquilla e accogliente e agli inizi del secolo scorso era una sorta di frontiera dopo la quale ci trovava in aperta campagna. Sul confine del quartiere c’erano delle case che avevano la funzione di stazione di servizio, o di punto di ristoro, dove si poteva trovare qualcosa da mangiare e da bere. L’aspetto di rua de Campolide, con le sue case alte due o tre piani, a prima vista sembra non essere mutato molto nel corso degli ultimi decenni. “Ma in realtà il quartiere si è trasformato in modo profondo, accogliendo nuovi abitanti stranieri che in un primo tempo erano arrivati in città come turisti, e ha abbandonato gradualmente la sua connotazione popolare, che risultava ancora marcata all’inizio degli anni duemila”, mi spiega Cardiello. Proprio a partire dai primi anni duemila nel quartiere sono stati costruiti nuovi palazzi con appartamenti di lusso e, se la frenata dell’economia non dovesse prolungarsi, presto ne verranno realizzati altri. Da rua de Campolide si vedono le arcate dell’imponente Aqueduto das Águas Livres, lungo 18 chilometri e realizzato a partire dal 1729. L’acquedotto, così solido da resistere al terremoto del 1755, fu costruito per ovviare alla cronica carenza di acqua potabile in città ed è rimasto in funzione fino al 1968.

Non lontano da qui c’è il quartiere di Campo do Ourique, dove Pessoa ha vissuto a partire dal 1920. Al poeta è stato dedicato il centro culturale Casa Fernando Pessoa, aperto nel 1993, che ha sede proprio nel palazzo da lui abitato. Poco distante si trova la Basilica da Estrela, costruita nel 1790 per volere della regina Maria I di Portogallo e apprezzata per le sue imponenti e originali forme neoclassiche e tardo barocche. Di fronte alla chiesa c’è un elegante giardino inglese, già Jardim da Estrela, poi ribattezzato Jardim Guerra Junqueiro, con una superficie di 4,6 ettari e dove d’estate si tengono concerti ed eventi musicali.

Lisbona, come ogni altra città importante, sfugge alle definizioni e alle analisi, è difficile da raccontare. Semplificando, si potrebbe dire che la città appare densa e stratificata nel centro storico, risultato di più epoche, di quelle visibili, e di quelle spazzate via dal terremoto, scomparse, o quasi del tutto invisibili. Al contrario, ai lati del centro, lungo il fiume, verso Belém, e verso l’Atlantico, e dalla parte opposta, Lisbona è moderna, contemporanea in alcune costruzioni, più rarefatta, con grandi spazi aperti tra i fabbricati e il corso maestoso del Tago a polarizzare lo sguardo. Se si va dalle parti di Belém non si può fare a meno di visitare il Museo Coleçao Berardo, che si trova all’interno del Centro Culturale di Belém, inaugurato nel 1992 e progettato dagli architetti Vittorio Gregotti e Manuel Salgado. Il museo prende il nome da José Berardo, che ha messo a disposizione della galleria la sua vastissima collezione. Aperto nel 2007, ospita le principali tendenze artistiche del ‘900: dal cubismo alla land art, passando per la pop art. Tra le altre, sono esposte creazioni di Giorgio de Chirico, Salvador Dalì, Marcel Duchamp, Pablo Picasso, Andy Warhol, Joseph Kosuth, Frank Stella, Bill Viola, Pino Pascali e di molti altri.

Usciti dal museo, è d’obbligo fare tappa al Mosteiro dos Jerónimos, un gioiello dell’architettura manuelina, realizzato tra il 1502 e il 1544. La costruzione fu voluta da re Manuel I per celebrare il ritorno a Lisbona del grande navigatore Vasco da Gama dopo aver scoperto la rotta per l’India. La descrizione che Saramago dedica all’edificio religioso merita di essere letta: “Produssero molto gli architetti del manuelino. Mai nulla di più perfetto di questa volta della navata né di tanto ardito come quella del transetto. Tantissime volte il viaggiatore ha fatto professione di fede in una certa rudezza naturale della pietra, ma adesso si deve arrendere davanti alla decorazione raffinatissima, che sembra un merletto imponderabile, dei pilastri, incredibilmente sottili per il carico che sopportano. E riconosce come sia stato un colpo di genio il fatto di lasciare in ogni pilastro una sezione di pietra priva di ornamento: l’architetto, pensa il viaggiatore, volle prestare omaggio alla semplicità originaria del materiale e, al tempo stesso, introdusse un elemento che, turbando la pigrizia dello sguardo, lo stimola. Dove però il viaggiatore cede armi, bagagli e bandiere è sotto la volta del transetto. Sono venticinque metri di altezza, in un vano di ventinove metri per diciannove. Qui non c’è pilastro o colonna a reggere l’enorme massa della volta, lanciata in un sol volo. Come un enorme scafo di imbarcazione rovesciato, questo vertiginoso ventre mostra l’armatura, sovrasta con le sue opere vive lo stupore del viaggiatore, che è lì lì per inginocchiarsi e rendere lodi a chi tale meraviglia ha concepito e costruito. Corre di nuovo alla navata, di nuovo l’avvincono i fusti slanciati dei pilastri che, in cima, accolgono o danno origine alle fitte nervature della volta come palmeti”.

Mosteiro dos Jerónimos – Foto di Luca Vaglio

Poco distante dal monastero si trova la Torre di Belém, alta trenta metri e costruita tra il 1515 e il 1521 per potenziare le difese della città alla foce del Tago. Nella sua guida turistica Pessoa ci parla così della fortezza: “Si tratta senza dubbio di uno dei più bei monumenti di Lisbona e uno dei ricordi più espressivi del potere navale e militare portoghesi. Questa meraviglia dell’architettura orientale fu eretta a difesa del fiume e della capitale portoghese sulla Praia do Restelo, famosa per essere il luogo da cui salpavano le navi per le Grandi Scoperte. Fu re Manuel I a ordinarne la costruzione; fu realizzata dentro il fiume e il progetto lo dobbiamo al grande maestro dell’architettura “a merletto” Francisco de Arruda. Fu iniziata nel 1515 e completata sei anni più tardi. In seguito le acque del fiume si ritirarono, lasciando la torre saldamente addossata alla sponda. Qui morì Dom Pedro da Cunha, padre di Dom Rodrigo de Cunha, vescovo di Oporto; fu imprigionato nella torre a causa della sua difesa del priore di Crato, pretendente al trono durante i primi anni della dominazione spagnola. Qui furono imprigionati anche numerosi esponenti della più alta nobiltà del regno. La Torre de Belém, vista da fuori, è un magnifico gioiello di pietra ed è con stupore e crescente soddisfazione che lo straniero ammira la sua particolare bellezza. È come un merletto, e dei più belli, nel suo delicato intarsio che, bianco, balugina da lontano, catturando immediatamente lo sguardo dei naviganti che entrano nel fiume. All’interno la sua bellezza non è da meno; dai suoi balconi e dalle sue terrazze si gode una vista indimenticabile del fiume e, sullo sfondo, del mare. Attraverso una scala di 123 gradini si giunge alla terrazza del sesto piano, di cui vi potete immaginare la vista”. Questa, invece, è la descrizione che ne fa Saramago: “Il viaggiatore non vede quale utilità militare avrebbe potuto avere quest’opera di gioielleria, con quel meraviglioso terrazzo sul Tago, luogo di massima eccellenza per assistere a sfilate di navi piuttosto che per orientare l’alzo dei cannoni. Che risulti, la torre non è mai entrata in formale battaglia. Meno male. Immaginatevi i danni che avrebbero fatto su questo “merletto” le bombarde cinquecentesche o le palanche. Il viaggiatore, quindi, può percorrere le sale sovrapposte, salire fino alle garitte, affacciarsi al balcone sul fiume e dispiacersi di non potersi vedere affacciato in un luogo tanto bello, e infine scendere fino alla zona più profonda, dove un tempo si tenevano i prigionieri. È la pecca dell’uomo: non può vedere un buco tenebroso senza pensare di mettervi un proprio simile”.

Torre di Belém – Foto di Luca Vaglio

Se si sale su un taxi, i cui prezzi a Lisbona sono ancora piuttosto economici, e ci si inoltra nella parte orientale di Lisbona, si arriva al Parco delle Nazioni, che ha assunto questa denominazione in seguito ai mutamenti architettonici avvenuti in occasione dell’Esposizione Internazionale del 1998 e finalizzati a riqualificare una vecchia area portuale in disuso. Colpisce lo sguardo il ponte Vasco da Gama, che con i suoi oltre diciassette chilometri è il secondo più lungo d’Europa dopo il ponte di Crimea. Nell’area si trova la Estacão do Oriente, realizzata da Santiago Calatrava su tre livelli, rispettivamente per treni, metropolitana e autobus, e caratterizzata dal design organico ispirato a forme presenti in natura riconoscibile nei progetti dell’architetto spagnolo. Al netto delle riserve che si possono avere su strutture di questo tipo, è notevole l’Oceanário, uno dei più grandi acquari del mondo, che contiene 15.000 animali acquatici e più di 400 specie di piante marine, divise tra una vasca principale e quattro più piccole dove sono stati ricreati gli habitat degli oceani Atlantico, Pacifico e Indiano e delle regioni antartiche.

E se per conoscere una città bisogna avere il tempo e il desiderio di percorrerla in lungo e in largo, ci sono anche momenti in cui conviene fermarsi. Ci sono pomeriggi d’estate illuminati da una luce chiarissima e diafana e attraversati da una fresca brezza oceanica in cui non c’è niente di meglio da fare che affacciarsi da un miradouro e guardare i tetti, il Tago, il cielo blu, o aspettare il tramonto per godere dei suoi colori prima accesi e poi più tenui, delle sue sfumature e dei suoi riflessi.

Per andare dalla riva del fiume verso il castello di São Jorge bisogna arrampicarsi per le vie strette e ripide dell’Alfama, il quartiere che al tempo della dominazione araba era il nucleo della città e che più di altri ha mantenuto la sua fisionomia originaria dopo il terremoto del 1755. Se si ha fame, ci si può fermare in qualche piccola osteria, magari in una di quelle assomigliano più a una casa privata che a un ristorante, e ordinare delle polpette di bacalhau insieme a un’insalata e a un po’ di riso bianco. E godersi l’esperienza, senza però illudersi di aver capito qualcosa, come ci ammonisce Saramago: “Il viaggiatore ha visto tante cose del mondo e della vita e non gli è mai piaciuto ritrovarsi nella pelle del turista che gira, guarda, fa finta di capire, scatta fotografie e se ne torna nel proprio paese affermando di conoscere Alfama. Questo viaggiatore dev’essere onesto. È stato nel quartiere di Alfama, ma Alfama non sa che cosa sia”. Il fascino di un luogo, e spesso anche la sua bellezza, del resto, hanno a che fare con l’impossibilità di comprenderlo, con la sua parte inafferrabile. Su quale sia il modo migliore per visitare il quartiere lo scrittore portoghese ha un’opinione precisa: “Adesso, finalmente, il viaggiatore va ad Alfama, pronto a perdersi dietro il secondo angolo della via e deciso a non domandare la strada. È la maniera migliore di conoscere il quartiere. C’è il rischio di mancare qualcuno dei luoghi selezionati (la casa di Rua dos Cegos, la casa del Menino de Deus, o quella di Largo Rodrigues de Freitas, la Calçadinha de São Miguel, la Rua da Regueira, il Beco das Cruzes, ecc.), ma, camminando a lungo, finirà per passarci e, nel frattempo, avrà avuto il guadagno di imbattersi mille e una volta nell’inatteso”.

Alfama – Foto di Luca Vaglio

Restando nel quartiere, conviene dare uno sguardo alla Cattedrale della Sé, dove Sé sta per sede episcopalis, fatta costruire nel 1150, tre anni dopo aver prevalso sui Mori, sul terreno di una vecchia moschea da re Alfonso I per il crociato e nuovo vescovo di Lisbona Gilberto di Hastings. Anche qui Pessoa e Saramago ci dicono molto in poche righe. Il poeta degli eteronimi ci ricorda che: “I tanti terremoti sofferti da Lisbona hanno lasciato le loro tracce sulla cattedrale, che ha subìto molti restauri. Bisogna dire però che sono stati effettuati malamente, tanto che oggi è visibile la mancanza di un progetto coerente da parte dei numerosi “restauratori”. Attualmente è in corso un restauro più attento, con la supervisione di António Couto, ed è augurabile che la ricostruzione doni una qualche unità artistica alla cattedrale”. E Saramago, che scrive a restauri ultimati e dopo che la facciata è stata restituita al suo originario aspetto romanico, sembra rispondergli: “Quanto alla Cattedrale, poco le è mancato che non sopravvivesse ai rammendi del XVII e XVIII secolo, successivi al terremoto alcuni, ma tutti senza giudizio né gusto. Fortunatamente si è riabilitata la facciata principale, adesso di grande dignità in quello stile che ricorda un castello. Non è certo il più bel tempio esistente in Portogallo, ma l’aggettivo è senza dubbio adatto al deambulatorio e alle cappelle absidali, un magnifico insieme per cui non si trova un facile parallelo. Anche la cappella di Batolomeu Jones, in gotico francese, merita attenzione. E c’è da segnalare il triforio, un’arcata così armoniosa da catturare lo sguardo. E se il visitatore soffre del male romantico, ecco la tomba dell’Infanta sconosciuta, commovente fino alle lacrime”. E, sempre nell’Alfama, è bene dedicare un po’ di attenzione anche all’eleganza austera della chiesa manierista di São Vicente de Fora e agli azulejos settecenteschi del monastero adiacente.

A Brasileira, interni – Foto di Luca Vaglio

Il giro minimo dei luoghi di culto non può non comprendere la chiesa di São Roque. Si trova nel cuore del Barrio Alto, a pochi passi dalle vie della movida più sfrenata. Ci si arriva, dopo aver risalito rua da Misericordia, partendo dal quartiere del Chiado, e più precisamente da Praça Luis Camões, a pochi passi dal caffè art déco A Brasileira, aperto nel 1905 e di fronte al quale c’è la famosa statua di Fernando Pessoa, seduto tra i tavoli all’aperto, realizzata da Lagoa Henriques nel 1988. Costruita nel 1570, dall’architetto italiano Filippo Terzi, e risparmiata dal terremoto, sbalordisce per l’opulenza delle decorazioni. Oro e pietre preziose abbondano. È imperdibile la cappella di San Giovanni Battista, commissionata da re Giovanni V e realizzata a Roma, per essere poi trasportata a Lisbona, sui disegni di Luigi Vanvitelli e Nicola Salvi. L’eccesso dello sfarzo maschera il rigore classico della composizione. Lo sguardo finisce per essere rapito dal trionfo quasi stordente di dorature, marmo, lapislazzuli, alabastro, giada, ametista e avorio, finanziati con due milioni di cruzado, ottenuti grazie all’oro proveniente dal Brasile. Chi ipotizza che l’ascesi sia una forma di ricchezza, spirituale o meno, qui può interrogarsi e tentare una risposta.

Cappella di San Giovanni Battista, chiesa di São Roque – Foto di Andreas Manessinger

Tra le curiosità gastronomiche più recenti meritano una segnalazione i cosiddetti ristoranti cinesi illegali. Di fatto sono dei ristoranti non autorizzati, ormai parte della cultura cittadina. In sintesi, non c’è nessun pericolo, soltanto la certezza di mangiare dei buonissimi piatti cinesi. L’unica difficoltà è quella di trovarli. Non hanno insegne esterne né menu fuori dalla porta. A volte, per entrare si deve suonare il campanello di una vecchia casa, altre volte, semplicemente, entrare in una porta aperta e salire una rampa di scale. Uno dei più frequentati si trova in rua Guia, una viuzza della Mouraria che anche i tassisti faticano a rintracciare. Vicino c’è la casa, ora trasformata in un ristorante, dove visse Maria Severa Onofriana, una cantante di fado di grande talento vissuta nella prima metà dell’800 e divenuta in seguito una figura leggendaria. È facile, passando da quelle parti a tarda sera, sentire un bel concerto di fado.

Per un pasto più tradizionale si può andare da Uma Marisqueira, che si trova in rua dos Sapateiros, nella Baixa, non lontano Rossio. Si può evitare di leggere il menu, ignorare gli antipasti e scegliere senza esitazioni la specialità della casa, l’arroz de marisco. Si tratta di una porzione generosa, che in qualunque altra città d’Europa sarebbe una portata doppia, servita nella pentola di cottura, di riso bollito con pezzi di granchio, gamberi e altri frutti di mare, che una volta assaporata, meglio se insieme a un bicchiere di vino buono, non si può dimenticare. Volendosi concedere una cena con vista sul Tago e sulla mole novecentesca e arancione del ponte 25 Aprile, conviene imbarcarsi e andare da Ponto Final, un ristorante dall’aspetto semplice e curato che si trova dall’altra parte del fiume. Scesi dal traghetto, per raggiungere il locale bisogna camminare per alcuni minuti lungo il fiume accanto a vecchi capannoni e fabbriche abbandonate i cui muri sono ricoperti da graffiti spesso pregevoli.

Molto altro si potrebbe dire su Lisbona. E sarebbero comunque discorsi almeno in parte arbitrari. Del resto, una città non può che essere un campo, più o meno reale, più o meno elettivo e immaginario, di scoperta individuale. E per ogni cosa vista ce ne sono sempre altre da vedere. Su questo punto ci viene ancora in soccorso Saramago: “Il viaggiatore esce nella via, è un viaggiatore smarrito. Dove andrà? Che luoghi andrà a visitare? Che altri tralascerà, per deliberazione propria o impossibilità di vedere tutto e parlare di tutto? E che cosa significa vedere tutto? Attraversare il giardino e andare a vedere le barche nel fiume sarebbe altrettanto legittimo dell’entrare nel Monastero dos Jerónimos. Oppure niente di tutto ciò, starsene seduto su una panchina o sull’erba, godendosi lo splendido e luminoso sole. Si dice che una barca ferma non fa viaggio. Infatti, ma si prepara a farlo”.

Foto di copertina di Luca Vaglio, tramonto sul Tago.

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