Trieste

Una chiesa che è due (G.O.O. #7)

1 Giugno 2017

Cari SG,

all’inizio del 1300 i cittadini di Trieste decisero che fosse necessario costruire una grande cattedrale dedicata al patrono della città, San Giusto. Il suo culto avveniva già nella piccola chiesa dedicata al santo stesso, che era affiancata, a pochissimi metri di distanza, da una chiesa parallela, intitolata a Santa Maria Assunta.

Non avendo la capacità economica per costruire una nuova chiesa, la comunità si decise per un atto inedito, grazie al quale, ancora oggi, possiamo visitare un edificio capolavoro.
Si progettò, infatti, di eliminare la navata di destra della chiesa dell’Assunta e quella di sinistra della chiesa di San Giusto: si ricavò così una navata centrale di adeguata ampiezza e maestosità per la nuova cattedrale, affiancata a destra e a sinistra dalle due navate rimaste delle chiese precedenti.
Una chiesa monumentale, eppur sbilenca, asimmetrica, per certi versi misteriosa.

Se aggiungiamo che il campanile si costruì sui resti di un propileo romano, otteniamo gli ingredienti di una situazione storica di estremo ed attuale interesse, che ci parla di economia, riuso, ecologia, partecipazione, resilienza; parole che oggi usiamo spesso a sproposito, ma che circa 700 anni fa hanno condotto a questo, magnifico, risultato.

Entrare nell’edificio senza conoscerne la genesi, infatti, è un’esperienza destabilizzante: l’ingresso è lievemente asimmetrico, ma, soprattutto, dopo una fugace occhiata, è possibile notare situazioni sottilmente incongruenti: nella navata centrale le arcate di destra e di sinistra hanno passi differenti, così come le colonne, che si distinguono in altezza e in tipologia di capitelli.
Non è come entrare nella Basilica di San Pietro a Tuscania, altro fantastico spazio religioso, dove ogni elemento che costruisce la chiesa è rubato ad altri edifici, in una somma vertiginosa di universi indipendenti, che si amalgamo in una unitarietà coerente e stupefacente.
Qui l’equilibrio è più labile, tutto giocato sulla grande copertura lignea che mette in comunicazione i due mondi paralleli, fondendoli in un unico dialogo di coppia, capace di aprire ad un grande respiro, che fa seguito al possibile smarrimento iniziale.
Lo spazio longitudinale esplode in altezza, grazie alla conformazione del tetto stesso, che si muove come un’onda, cristallizzata dal susseguirsi strutturale della grandi travi.
E poi, inoltrandosi lungo questo spazio, si percepiscono le multiple viste delle due chiese, in un crescendo quasi piranesiano di complessità spaziali, dove i vecchi absidi accettano di diventare narrazioni minori (rispetto alla grandiosità del nuovo abside), ma forse per questo ancor più coinvolgenti.
E’ come se ci trovassimo in un ambito esterno, seppur coperto: la navata centrale diventa la piazza di collegamento fra due edifici pubblici, che si mettono a disposizione per creare un luogo altro, più adeguato alle esigenze della città, più capace di accorpare i desideri di una comunità di persone.

Basta poco, alle volte: un grande tetto, un muro prezioso (quello del nuovo abside, rivestito di marmo striato, con una suggestione quasi veneziana), un’ampia apertura per far entrare luce (il rosone, chiaramente fuori asse rispetto alla facciata).


E, ovviamente, un po’ di coraggio: quello di pensare che l’architettura sia materia viva della società, capace di venire incontro alle esigenze di un congiunto di persone, di adattarsi, anche con feroci modifiche, all’evolversi dei tempi e delle situazioni.
L’architettura non è solo testimonianza di un patrimonio storico, ma volontà di coagulare, entro la propria conformazione fisica, gli intenti e le aspirazioni di un’epoca.

Questa è la storia di come le esigenze più stringenti spingano spesso a provare soluzioni inaudite, capaci poi di essere realmente innovative a patto che non puntino al ribasso, alla semplice correttezza, ma spingano l’aspirazione al massimo livello.
Ce ne dovremmo ricordare, per esempio, quando ci troveremo a ricostruire i paesi distrutti dal terremoto, dove il “dov’era, com’era” agisce in concomitanza con il “temporaneo permanente”, scordandosi, appunto, che il paesaggio costruito, soprattutto quello italiano, è sempre stato una modifica coraggiosa dell’esistente, una sovrapposizione fertile di epoche storiche, una somma di preesistenze in conflitto apparente, che riesce a definire un linguaggio nuovo.

Con affetto
Diego Terna

G.O.O. #6

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