Letteratura
La prima guerra mondiale di Rumiz: basta miti, il peggio di noi è nato lì
“Il 24 maggio del ’15 la cavalleria italiana passa il confine austriaco dalle parti di Cervignano e chiede a un vecchio seduto sulla porta di casa: ‘Scusi, buon uomo, dov’è il nemico?’. E il buon uomo, tranquillo,risponde: ‘Veramente, signor ufficiale, il nemico siete voi’. E’ forse lo scambio di battute più esilarante, ma anche meno scontato dell’ultimo libro di Paolo Rumiz.
Come cavalli che dormono in piedi (Feltrinelli), questo è il titolo, è il libro più anticonformista oggi presente in libreria.
Nella stagione delle commemorazioni del centenario della Prima guerra mondiale in cui ormai siamo immersi da mesi – e da cui presumibilmente non usciremo tanto presto – è il primo libro e forse a lungo l’unico, vista la stagione di fascino per l’identità nazionale cui tira la volata anche l’antieuropeismo che va per la maggiore, in grado di parlare della guerra andando contropelo.
Il tema è il sentimento di quelli che entrano in guerra nel 1914 e poi nel 1915. Triestini, come il nonno di Rumiz, ma anche trentini (Cesare battisti fu la testimonianza di una scelta di minoranza) che vanno in Galizia a combattere, italofoni, che non sono italiani, che si sentono parte di un impero, ma che vivono di una cultura propria. L’esito della guerra, la dissoluzione dell’Impero, li trasformerà in figure “fuori luogo”, prima ancora che “senza luogo”, costringendoli tutti a definirsi nazionalisticamente, ma senza più ritrovarsi.
Non è la prima volta che questo tema compare nella letteratura in Italia. Molti anni fa ci aveva provato Mario Rigoni Stern con Storia di Tönle (Einaudi) uomo con famiglia, con casa, ma senza più avere la possibilità di vivere se non negli interstizi. Figura che la Prima guerra sull’altopiano di Asiago trasforma in “fantasma”.
Nelle pagine di Rumiz, le figure reali non diventano fantasmi, si trasformano in figure non previste e per questo, oltreché senza radici, diventano “cittadini a rischio”. Il loro presente è incerto perché non sono previste nel futuro. O si adeguano o sono destinate alla scomparsa.
E’ la vittoria della nazione sulla transcultura e l’intercultura. Chi ritiene di avere una cultura, ma non sentirsi rappresentato in un solo Stato-nazione, è una figura anfibia, ora vissuta come ambigua. Per questo non è affidabile, è un nemico, ancor più sospetto se parla la lingua del “noi”, pur non essendo “noi”.
Vista da questo angolo prospettico l’Europa che va alla guerra nel 1914 e muore nel 1918, non è quella dell’Impero la cui nostalgia F.S. Fitzgerald consegna in una pagina di Tenera è la notte quando descrive ciò che vede il turista a guerra finita ripercorrendo le trincee.
E’ invece il primo segnale della nuova forma della guerra totale che conoceremo più radicalmente con la seconda guerra mondiale, e poi continuata sulle colline di Srebrenica (almeno sul suolo europeo): costellata di stermini, in nome della comunità pura da erigere.
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